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Lettere al direttore

E la chiamano “meritocrazia”…

Un Paese deformato da paradossi di carattere politico, storture economiche ed antinomie sociali e culturali.

Con l’alibi della “meritocrazia” in salsa renziana, in Italia, e persino nel mondo della scuola (rimasto a lungo una sorta di “oasi felice”), stanno sdoganando ed istituzionalizzando definitivamente il clientelismo e persino la corruzione. Si pensi solo ad un tizio come Schettino che un paio di anni fa ebbe l’onore di svolgere alla Sapienza addirittura un “master” sul tema (udite udite!): “come gestire il panico”. Pare una barzelletta, invece non lo è. Una lezione in un ateneo così prestigioso, tenuta da un soggetto simile sulla gestione del panico, a me suona come un ossimoro, una contraddizione terminologica. Probabilmente, tale caso indica la sintesi più emblematica, il paradigma perfetto, quanto parossistico, di un Paese assai scombinato, che si muove alla rovescia.

Un Paese deformato da paradossi di carattere politico, storture economiche ed antinomie sociali e culturali. Un Paese assai irrazionale e controverso, in cui i codardi e i banditi salgono in cattedra per impartire lezioni, i mediocri, gli inetti e gli ottusi governano le istituzioni statali, i mafiosi e i corruttori legiferano in materia di mafia e corruzione, gli evasori fiscali fanno la morale a chi paga le tasse, i farisei predicano male e razzolano persino peggio.

Tutto ciò risulta inconcepibile o inammissibile ad un intelletto appena sano e ragionevole, o a una persona intellettualmente onesta, diversamente da chi è in perfetta malafede o mentalmente distorto. Eppure, vicende così assurde e bizzarre (trattasi di eufemismi) sono diventate la “normalità” nell’Italia “renzusconiana”. I lacchè e i “benpensanti”, i cani da guardia fautori delle tecnocrazie e delle oligarchie capitalistico-finanziarie al potere, chiamano (cinicamente) “meritocrazia” simili aberrazioni. In tal modo, oltre al danno ci tocca sopportare la classica beffa. Possono farlo liberamente, in quanto detengono quel ruolo ideologico delicato che Gramsci definì “egemonia”, che consente di spararle clamorosamente grosse e rimanere impuniti.