I pilastri del Ponte, viaggio nella Comunità di don Egidio Smacchia a #civitavecchia

19 settembre 2016 | 12:00
Share0
I pilastri del Ponte, viaggio nella Comunità di don Egidio Smacchia a #civitavecchia
I pilastri del Ponte, viaggio nella Comunità di don Egidio Smacchia a #civitavecchia
I pilastri del Ponte, viaggio nella Comunità di don Egidio Smacchia a #civitavecchia

Il Ponte, da 38 anni in cammino insieme ai giovani che hanno smarrito la strada

I pilastri del Ponte, viaggio nella Comunità di don Egidio Smacchia a #civitavecchia

Il Faro on line – Sorriso aperto, gli occhi vispi, modi gentili e fare educato… i classici “bravi ragazzi”. Il primo contatto è con loro, con i “buongiorno” dispensati con quella naturalezza che il mondo di oggi spesso soffoca tra ansie e arrabbiature. Una semplicità che non fa immaginare al contrario la difficoltà di una vita in cui si sono fatti sbagli pesanti, si è presa una strada pericolosamente in salita.

Nella comunità Il Ponte (o meglio Centro di solidarietà), nata nel 1978 a Civitavecchia dalla caparbietà di un (allora) giovane prete, don Egidio Smacchia, vice parroco di Allumiere, si respira tutto questo. Sbrigativamente queste realtà si definiscono “di recupero”, intendendo con ciò l’abbandono di una dipendenza, ma ciò che mi ha colpito è che la parola “recupero” in questo caso riguarda più i valori semplici del vivere insieme che una vicenda tossicologia.

Una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, quando per “comunità” si intendeva il paese dove si viveva, quando l’educazione era al primo posto, la discrezione accompagnava l’interazione tra le persone, il mutuo soccorso era la norma e il dialogo il pane quotidiano.

Quando le regole erano regole, il relativismo non aveva ancora attecchito nella società e ci si conosceva gli uni con gli altri; esercizio fondamentale, questo, per attivare quel confronto che, alla fine, ci fa guardare dentro noi stessi e ci consente finalmente di “conoscerci”.

Gli inizi

“Non è stato facile, sa? – racconta don Egidio – Non lo è nemmeno ora, ma da anni ormai c’è un cambio di prospettiva rispetto ai nostri inizi. Quando partimmo, infatti – ricorda – ci rivolgevamo agli adulti, a chi aveva alle spalle già un lungo percorso di criticità, dalla tossicodipendenza ad altre dipendenze.

Erano anni in cui in Italia si affacciava la piaga dell’Aids, che i medici nemmeno conoscevano, non comprendevano la patologia né sapevano riconoscerla. Ci accorgemmo che erano percorsi che portavano spesso a celebrare funerali, invece che a salvare vite. E ci siamo detti: dobbiamo cambiare, dobbiamo fare qualcosa di più, andare alla radice del problema”.

Gli adolescenti

Per farlo il Centro fu chiuso un intero anno. Tempo di riflessione, e d’impostazione di una nuova strada, interamente dedicata ai giovani, agli adolescenti. “Fu difficile persino far capire cosa volevamo – spiega sempre don Egidio -.

Le famiglie pensavano di poter fare tutto da sole, non si voleva far uscire il problema dalle mura di casa, e spesso si liquidava la cosa con ‘quattro sculacciate e lo rimetto al suo posto’. Ma non è così, purtroppo. E piano piano la nostra mano tesa ha iniziato ad afferrare quella dei ragazzi e delle ragazze che incontravamo in difficoltà”. La prima fu una ragazzina di 14 anni…

I pregiudizi

Già, perché qui al Ponte si parla di giovani, non di “drogati”: “E’ un modo sbagliato di affrontare il problema, quello fin troppo facile di appiccicare un’etichetta – spiega Giovanni Casarosa, psicoterapeuta e responsabile del Centro -. Definire un giovane drogato significa affibbiargli un correlato di pregiudizi pesantissimo: vuol dire considerarlo un mezzo barbone, disperato, delinquente; classificarlo come irrecuperabile.

Esattamente il contrario della verità. Sono ragazzi che hanno vissuto disagi fortissimi, il più delle volte non per colpa loro, che nella strada tortuosa e dolorosa della crescita si sono persi; e restano bloccati ‘dentro’. Sono ragazzi che hanno bisogno di ritrovare se stessi, certo, ma prima ancora di ritrovare un perno sul quale far leva per costruire il proprio futuro”.

I libri

E questo perno, forse incredibilmente, è proprio lo studio. Non per tutti, certo; per chi lo vuole, per chi è portato e per chi capisce il valore di una strada come quella della conoscenza; eppure sono tanti quelli che investono sul proprio cervello per ritrovare il proprio cuore.

Si ritorna a studiare, dopo aver pensato che mai e poi mai si sarebbe accettato di confrontarsi con un professore né tanto meno “perso tempo” sui libri. E invece è proprio da lì che si riparte, in un viaggio che prima si affronta nella “sicurezza” delle mura del Ponte, e poi tornando in classe, nel luogo dove è giusto che stiano i ragazzi di quella età.

Le ferite

Ma quando si torna a quel tipo di vita – che non è ancora la libertà di ritrovare completamente se stessi, percorso che arriverà successivamente – si scopre con meraviglia di non essere “peggiori” dei propri coetanei ma addirittura “migliori”. Nel senso che le ferite provocate dal passato, seppur così in tenera età, danno quella maturità che li fa diventare punto di riferimento per gli altri. La rivincita del bene verso il male, la testimonianza di come sia possibile tornare a “dare”, una sensazione che fortifica tutti i soggetti coinvolti.

I numeri

Qualche numero? 431 ragazzi del Ponte hanno ripreso positivamente il percorso scolastico dal 1993 al 2016. Sono arrivate 15 licenze medie inferiori, 101 idoneità, 197 maturità, 61 universitari di cui 35 laureati. E quasi tutti con volti alti.

Le difficoltà

Tutto rose e fiori? Sarebbe ipocrita pensarlo. Il percorso al Ponte è durissimo; “la scimmia”, come viene chiamata in gergo la droga, è sempre dietro l’angolo pronta a saltarti addosso. Per questo si lavora molto sulle regole: orari, disponibilità, incarichi, tutto è contingentato, organizzato, definito, controllato.

Anche i rapporti sessuali sono vietati, cosa particolarmente difficile in un ambiente dove convivono, seppur separati come camerate, maschi e femmine con gli ormoni in tempesta.

Ma anche su questo fronte, le risposte sono sorprendenti. “E’ ovviamente un fattore che pesa – mi ha detto un ragazzo nel mio giro all’interno della Comunità, che don Egidio mi ha permesso di fare – ma a me interessa salvarmi la vita. Il resto viene dopo”. Non c’era da aggiungere neanche un respiro a una fotografia così lucida del presente e del futuro.

I valori

Il Ponte funziona così bene da questo punto di vista da essere stato preso a modello da altre Comunità. “Ma non togliamo spazio all’amore – spiega don Egidio – Se scatta la scintilla, accompagniamo i ragazzi in un percorso che li vedrà, una volta cresciuti, vivere a pieno la loro storia”. Ancora una volta un tuffo nei valori di un tempo, quando il fidanzamento era qualcosa di serio, e la conoscenza avveniva senza bruciare tappe e persone.

I pilastri

Un Ponte, per reggersi, ha bisogno di pilastri. Don Egidio ne ha segnati quattro: “I ragazzi stessi, primi attori di questo percorso; gli educatori, che prendiamo solo laureati, preparati e che sottoponiamo costantemente a valutazioni, anche sul loro modello di vita personale; i sert, che quando ci sono vicini, con la loro professionalità diventano un riferimento importantissimo, rappresentando le istituzioni; e le famiglie, soggetto imprescindibile in un viaggio come questo…”

La famiglia

Ma il concetto di famiglia negli anni si è profondamente modificato… “Noi puntiamo su una o più figure che il ragazzo senta come referenti forti per la sua vita. Non è indispensabile che siano per forza sempre mamma e papà insieme, la società di oggi spesso non propone questo modello, e in situazioni critiche è anche più difficile trovarlo. Ma ogni ragazzo ha un proprio punto di riferimento affettivo forte, e su quello si costruisce il pilastro. Ma deve essere un punto di riferimento che sappia dire anche ‘no’”.

Le famiglie al Ponte vengono coinvolte, messe al corrente, interagiscono con la struttura e con i ragazzi, la visitano, ne fanno parte. Ma ne sono anche escluse, al contempo, perché i ragazzi ne capiscano il valore. Visite a giorni prestabiliti, telefonate ad orario. Anche quel momento diventa una conquista, anche per loro valgono i “no”.

E poi una volta l’anno, mentre i giovani sono fuori per un “percorso dello Spirito” che dura qualche giorno, entrano nella struttura e la vivono. Stessi orari, stesse regole, stessa mensa. Stessa vita, insomma, per favorire poi l’osmosi di sentimenti tra gli uni e gli altri.

I volontari

Ci vorrebbe un libro, non un articolo, per raccontare tutto. Le “coccinelle”, giovani mamme in difficoltà ospitate dalla struttura di don Egidio, il lavoro nei campi, gli insegnanti che vengono nella struttura a fare volontariato con una determinazione e una dolcezza unici, gli educatori nel difficile ruolo che interpretano, tutti facenti parte di una realtà che ha scelto il “metodo” prima ancora che le individualità.

Il metodo

Tutti si è parti di un percorso di vita, tutti alla pari e tutti importanti, ognuno con il proprio ruolo. E’ la “pressione di gruppo” che fa esplodere l’energia positiva, la voglia di vivere, la forza di superare i problemi. Tutti “coinvolti” e non “travolti” dai problemi di ciascuno.

Un insegnamento che dovrebbe essere scritto a caratteri cubitali per le strade del mondo. Quelle che molti ex ospiti della comunità oggi percorrono con ruoli rilevanti, contenti di avercela fatta. L’ultima domanda l’ho fatta sperando in una risposta, che è arrivata piena, tonda, confortante seppur lapidaria. Se ne può uscire davvero? “Sì”.

Servizio fotografico Jusy Coppola