IN RICORDO DI UNA LEGGENDA DEI 200 METRI |
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Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’

16 settembre 2017 | 08:00
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Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’
Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’
Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’
Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’
Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’
Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’

Al Mennea Day del 12 settembre scorso, sua moglie ne parla. Carriera, quotidiano e valori dello sport. Un campione anche nella vita, che ha segnato un’epoca nell’atletica leggera mondiale. Atleta indimenticabile

Pietro Mennea, il ricordo di sua moglie Manuela, ‘Per lui niente era impossibile, la medaglia olimpica, l’emozione più sentita’

Il Faro on line – Vengono in mente, le parole di sua moglie Manuela. Ammirando il filmato della gara olimpica in cui vinse la sua prima e unica medaglia d’oro a Cinque Cerchi, la vedi la sua voglia di vincere. Quella rabbia sportiva che Pietro si portava dentro, per tagliare il traguardo, sempre per primo.

E’ un simbolo Mennea, per tutto lo sport italiano. E non solo. Nel mondo, dal 1971 al 1988, quando smise di correre, ha segnato un’epoca. Ha disegnato un nuovo modo di correre e di affrontare allenamenti e gare. Il tempo non si fermava per lui, solo sul traguardo, quando di botto giungeva al termine di una corsa affrontata con il cuore e l’anima, ma lo faceva mentre costruiva una carriera straordinaria. Lo faceva, in segno di rispetto. Tutta Italia, in quegli anni, si stringeva intorno a lui, per cercare con il suo campione, un podio su cui salire.

Lo ha fatto Pietro, tantissime volte. Nei suoi 200 metri piani, gli annali hanno riempito pagine e pagine di racconti, tempi e descrizioni. Hanno pianto tifosi, cronisti e innamorati dell’atletica leggera, seguendo la sua corsa, sul tartan. E lui intanto si allenava. Una vita di sacrifici, come racconta Manuela. Da solo al Centro di Preparazione Olimpica di Formia, si metteva in ascolto della sua voce interiore e correva. Per giungere primo. Per sfiorare il cielo e conquistare medaglie. Lo scoprono, i lettori de Il Faro on line, in questa intervista, rilasciata da sua moglie ManuelaOlivieri, a 4 anni dalla sua scomparsa.

Se n’è andato il 21 marzo del 2013, lasciando un grande vuoto. Ma allo stesso tempo, consegnando alla storia dello sport, un insegnamento che rappresenta una svolta nella vita. Ed esso viene ogni anno ricordato e rinnovato. Nel Mennea Day. Ne ha parlato Manuela, in questo appuntamento consueto, che si svolge ogni anno, su iniziativa della Fidal. Si organizza in tutta Italia, questo evento, il 12 settembre. In memoria del record di Pietro sui 200 metri, conquistato a Città del Messico, nel 1979, in occasione delle Universiadi. Un primato ancora imbattuto in Europa, ci tiene a sottolinearlo Manuela. Lo hanno superato nel mondo, invece, i grandi velocisti. Come lui. 19’’72. Un tempo breve. Un tempo in cui Pietro ha raccontato la sua storia. Non si molla mai, nella vita. Non c’è niente di impossibile, da raggiungere. Questo è il messaggio trasmesso. E soprattutto, detto nei confronti dei giovani. Lo ha fatto Mennea, migliaia di volte nelle scuole e oggi, continua a farlo, lei. La sua dolce consorte, che parla di lui, con particolare trasporto.

Mentre i bambini, allo Stadio delle Terme di Caracalla, si confrontano su quella curva, in un pomeriggio di sole, di quasi fine estate, mettendo uno dopo l’altro sulla pista, i loro giovani passi e ingenui sogni, Manuela ricorda Pietro, nelle sue commosse parole. E’ lì sempre, che si può fare la differenza. In curva. Cresceva Pietro in essa e diventava il dio dei 200 metri. I giovani oggi, come lui, costruiscono le loro vite, nello sport. Maestro di quotidianità, come il campione olimpico di Mosca 1980. Una manifestazione di peso, per l’atleticaleggera, il Mennea Day, iniziata e voluta da Mario Biagini, presidente del Comitato Fidal Provinciale di Roma, nel 2009. Un grande innamorato di Pietro, il dirigente romano che ospitò proprio il suo idolo allo Stadio Nando Martellini, nella prima edizione della festa.

Una bagno di affetto per lui, in quell’occasione. Lo racconta sua moglie Manuela. Non poteva essere diversamente. Nell’immaginario collettivo, Pietro ha rappresentato una unicità di rivalsa e di campione sportivo, che si portava dietro una nazione intera. Ed è l’emozione che trascina gli appassionati a seguire i loro campioni. Lui emozionava, perché voleva arrivare. Lo diceva nella sua corsa. Parlava, con le sue gambe e con il suo corpo, laggiù in pista. E la gente sentiva cosa Pietro comunicava. E ancora oggi, lo fa. Segno che, le imprese dello sport continuano ad echeggiare, per sempre.

Tantissimi gli iscritti a Caracalla, come nel resto degli impianti sportivi italiani, dove la manifestazione è stata organizzata. E lo scopo non è solo percorrere quegli storici 200 metri, ma anche mettersi al collo una medaglia celebrativa, con la firma di Pietro. E i bambini ce l’hanno sul cuore, sapendo che essa non è solo un metallo, ma anche il segno indelebile della vita. Lo sport ne è lo specchio e base. Lo stesso Pietro aveva raccolto tanto nella sua disciplina sportiva, da cui poi, ha saputo costruire tanti successi lavorativi nella vita normale, senza il suo sport del cuore.

4 lauree per lui, accanto alle 29 medaglie vinte, tra cui 18 volte oro. Un argento e un bronzo, mondiali, insieme a tre titoli continentali vinti. Tra di esse però, la più bella è certamente quella olimpica. Inseguita per 12 anni. E poi a Mosca 1980, con dolori fisici sparsi, Mennea è diventato leggenda e ha potuto completare un puzzle che desiderava terminare. Si sa che, per ogni atleta, l’alloro a Cinque Cerchi, è il metallo più prezioso e voluto, ma per Pietro era qualcosa di particolare. Nell’oro messo al collo, c’era tutta la sua vita. I suoi sogni. Il sudore di una quotidianità, in cui di giorno in giorno, Pietro con sacrificio durissimo, ha costruito il successo olimpico. Lui stesso brillava e brilla ancora, in quella massima medaglia del primo posto. 20’’19, per lui il tempo segnato sul traguardo.

Probabilmente, questa per lui, l’emozione più grande della sua carriera, come Manuela racconta. Un uomo eccezionale anche nella vita. Votato al lavoro e alla semplicità del quotidiano, in cui la forza interiore ha fatto sempre la differenza.

Cara Manuela, si rinnova ogni anno, l’appuntamento  con il Mennea Day, in ricordo di Pietro. Quali sono le tua impressioni?

“Lo ha voluto Mario Biagini questo evento, nel 2009. Per ricordare i 30 anni dal record del mondo. Allora, Pietro era qui, allo Stadio delle Terme di Caracalla, abbracciato dall’affetto di tutti. Ricordo quell’edizione, con speciale affetto. In seguito, è stata voluta ancora la manifestazione, dalla Fidal, per ricordarlo. Il 12 settembre Pietro ha raggiunto un record sui 200 metri, che è ancora imbattuto in Europa. E’ importante. E’ bello ricordare questo. Avvicina i giovani all’atletica leggera, che credo sia uno sport completo. Pietro diceva: “In fondo, i bambini, prima di cominciare a camminare, corrono”. Cominciare comunque con essa, sarebbe importante per loro, secondo me”.

Qual è il tuo ricordo personale di Pietro, come uomo?

“Per me, è stato sempre e solo Pietro. Una persona speciale, che sto cercando anche di  far conoscere. Lui era molto diverso, rispetto a quello dell’immaginario collettivo. Era una persona ironica, divertente, disponibile verso gli altri. Scherzava con i ragazzi e i bambini. Andava nelle scuole, raccontando della sua esperienza nello sport. Il mio Pietro. Ho avuto il privilegio di conoscerlo. Lavoravamo insieme anche, quindi stavamo vicini 24 ore su 24. Era la prima persona che vedevo quando aprivo gli occhi e l’ultima quando li chiudevo. Un’emozione”.

Come sportivo invece Manuela, cosa ti raccontava della sua esperienza?

“Questo è fatto divertente. Quando ho conosciuto Pietro, praticamente non sapevo chi fosse. Ero l’unica nel mondo (ride). Questo poi, è stato il nostro segreto .. nel senso che, lui era sicuro che io non uscissi con lui, perché era Pietro Mennea e allora pian piano, mi raccontava un po’ tutte le sue esperienze, tutto quello che era stato. Una volta mi ha portato questi libroni con tutti gli articoli dei giornali che ritagliava suo papà, quando correva. Ci scherzavamo. Mi diceva: “Ma guarda cosa ho fatto..”. Nel mio piccolo, svolgevo qualche gara, come si faceva ai Giochi della Gioventù e mi veniva sempre il mal di stomaco, prima di scendere in pista .. e allora io gli chiedevo: “Pietro, ma tu alle Olimpiadi, con 80 mila persone sugli spalti, quando in 20 secondi, ti giocavi 4 anni di duro lavoro, non avevi paura?”. Lui poi mi rispondeva: “Mi caricavano. Mi spingevano. Lo facevo anche per loro. Rappresentavo l’Italia. Era emozionante”. Questo era il suo entusiasmo, nell’affrontare le gare. Era il suo impegno, non solo per se stesso, ma anche per chi lo seguiva e chi lo tifava”.

Ha vissuto un’emozione in particolare, che ti ha raccontato, nella sua carriera?

“Chiaramente, era difficile distinguere il record personale, dalla medaglia olimpica. Parlando, mi confessava che lui era andato a Città del Messico, per battere quel record sui 200 metri. Diciamo che, era quasi programmato. Invece, la medaglia olimpica è stata una sorpresa. Arrivò che non era in forma, aveva un po’ di mal di schiena. Nella sua terza Olimpiade, forse era l’ultima opportunità che avesse, di vincere i Giochi. Diceva che la sua carriera agonistica fosse stata come un mosaico, in cui bisognava mettere tutti i tasselli al posto giusto, se non c’era quello olimpico, era come se fosse mancato qualcosa di importante. La differenza lì, l’hanno fatta veramente la sua rabbia e voglia di vincere. Dal sesto posto, è arrivato al primo. E’ stata la gara, che è rimasta nell’immaginario collettivo di tutti. C’eravamo resi conto, che questo era vero. Quando incontravamo le persone, noi chiedevamo: “Ti ricordi cosa stavi facendo, quando Pietro vinse l’oro?”.. e quasi tutti si ricordavano cosa stavano facendo e dove stavano. Quella gara aveva veramente segnato le persone. La rimonta pazzesca dal sesto posto, fino a vincerla. Sicuramente quella, è stata per lui, l’emozione più sentita”.

Cosa ti ha detto di quella vittoria? Cosa ha provato dopo di essa?

“Una liberazione. Finalmente, aveva conquistato la medaglia d’oro olimpica, che inseguiva da 12 anni. Lui già a Montreal, avrebbe dovuto vincerla. Era predestinato. Poi, per una serie di cose accadute, non era riuscito a salire sul primo gradino. Per lui arrivare quarto, equivaleva ad una sconfitta. Adesso, ci metteremo la firma (ride) .. ma per lui non era così. Lui faceva una vita, veramente sacrificata. Io gli dicevo: “Ma come hai fatto a fare quella vita così?”. Ha svolto una vita da sacrificato. Quando me lo raccontava, restavo allibita. Il sacrificio. Da solo, a Formia, in albergo, senza nessuno”.

Che cosa spingeva Pietro, a correre in pista?

“Aveva voglia di arrivare. Aveva questa sua determinazione, il suo impegno, il voler raggiungere l’obiettivo, alzare l’asticella sempre più su. E questo poi, lo faceva anche nella vita di tutti i giorni. Mi sono resa conto poi, quando l’ho conosciuto .. quanto fosse stato importante per lui, vivere lo sport. Proseguire poi nella vita e avere in essa, successo. Non fermarsi mai. Scherzando mi diceva: “Potevo vivere di rendita, per quello che avevo fatto nello sport ..”. Non gli bastava. Questa era la sua mentalità”.

Ma cos’era allora, lo sport per lui, Manuela?

“Era quello che poi cercava di raccontare ai ragazzi. Rispetto delle regole e dell’avversario. Vince chi è il più bravo, non chi è più furbo. Lo sport è un raccoglitore di valori. Ti aiuta a vincere nella vita. La mentalità che acquisisci nello sport, se riesci ad applicarla, ti aiuta nella vita. Io l’ho visto. Io l’ho conosciuto, quando aveva già smesso di correre e mi sono resa conto, che lui aveva questo pensiero, che dico spesso ai ragazzi. La parole mai e impossibile non esistevano e non esistono”.

Vai nelle scuole a parlare di Pietro?

“Inizialmente, è stato difficile. Io lo racconto sempre. Mi manca molto, la sua protezione. Lui attirava tutto su se stesso, chiaramente essendo lui, il personaggio conosciuto, era così. Per me stare dietro, era perfetto! Quando mi voleva prendere in giro, all’interno di un convegno .. diceva: “Lì dietro, c’è mia moglie che si vergogna..” (ride). Ho dovuto vincere questa mia timidezza. Sarebbe stato quello che avrebbe voluto, parlare di lui. Lo faccio per lui. Vedo che è importante, andare a trasmettere questo messaggio, ai ragazzi. Bisogna accettare le sconfitte, per poi superarle e andare avanti e vincere. Vedo molta fragilità nei giovani. Anche dal punto di vista professionale. Io sono avvocato, come lo era Pietro. Quando mi occupo di casi di famiglia, vedo questi ragazzi fragili. Devono invece capire che, anche le sconfitte sono importanti, non si devono demoralizzare davanti al primo ostacolo. E’ importante lottare, per ottenere quello che si desidera. Pietro diceva sempre: “Impegnarsi in quello che si fa. Qualcosa si ottiene sempre”.