Idi di marzo, l’ultimo giorno di Giulio Cesare

15 marzo 2019 | 00:01
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Idi di marzo, l’ultimo giorno di Giulio Cesare

Il 15 marzo del 44 a.C., l’uomo più potente dell’antica Roma viene assassinato con ventitré coltellate: un omicidio che cambiò per sempre la storia dell’Urbe e del mondo intero

Roma – “Libertà! Indipendenza! La tirannide è morta!“. E’ questo, secondo William Shakespeare, che gridano i senatori con le mani ancora bagnate di sangue. Davanti a loro, inerme e senza vita, giace in una pozza rossa Caio Giulio Cesare.

Quello che agli occhi del popolo romano sembra una divinità scesa in terra, vicina e attenta, con le sue politiche, anche ai più poveri, per un gruppo di circa venti senatori altro non è che un traditore del “mos maiorum“, ovvero la tradizione, gli usi e i costumi della civiltà romana.

L’umiltà, prova esperienza comune, è la scala di una giovane ambizione. Ma, come abbia raggiunto l’ultimo gradino, volge essa le spalle alla scala e rimira le nubi, spregiando i gradini più bassi ond’essa è ascesa.
(“Giulio Cesare”, W. Shakespeare – Atto II, scena I)

I motivi dell’assassinio di Cesare

I congiurati, che quel 15 marzo uccidono uno degli uomini più potenti del mondo antico, si considerano custodi e difensori del mos maiorum e dell‘ordinamento repubblicano, per loro cultura e formazione. Per tanto, sono contrari a ogni forma di potere personale.

Il loro più grande timore è che Cesare si voglia proclamare re di Roma. I sospetti iniziano a circolare tra i senatori nel 46 a.C., quando Cesare, nella campagna di Spagna, affronta gli eserciti di Ggneo e Sesto, figli di Pompeo Magno. Il 17 marzo dell’anno successivo, nella battaglia di Munda, l’esercito cesariano sconfigge Pompeo, procurandosi le antipatie di buona parte dei sostenitori della Repubblica, che temono l’instaurazione di un regime monarchico.

Non solo: diversi malcontenti si generano all’interno della stessa fazione di Cesare: i suoi più fidati collaboratori, tra cui Marco Antonio e Gaio Trebonio, vengono esclusi dalla campagna spagnola o posti in secondo piano durante le battaglie, nutrendo un certo risentimento nei confronti del loro stesso leader, cui erano stati fino ad allora profondamente devoti.

Questo, unito al protrarsi delle guerre civili e le tendenze al potere di Cesare, genera le condizioni affinché i senatori gettino le basi della congiura. Dunque, tra i congiurati, oltre ai pompeiani e ai repubblicani, troviamo anche i sostenitori di Cesare, spinti a compiere l’assassinio soprattutto per motivi personali: rancore, invidia e delusioni per mancati riconoscimenti e compensi.

I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l’uomo di coraggio non assapora la morte che una volta. La morte è conclusione necessaria: verrà quando vorrà.
(“Giulio Cesare”, W. Shakespeare – Atto II, scena II)

La corona rifiutata

La goccia che fa traboccare il vaso avviene un mese prima delle idi di marzo, il 15 febbraio del 44 a.C., giorno della festa dei Lupercalia.

Un rito che consiste nella corsa dei “luperci”, uomini vestiti con pelli di capra che, correndo intorno al colle Palatino forniti di scudisci, colpiscono – in segno di buon auspicio – tutti quelli che incontrano nel loro percorso. Soprattutto le donne incinte, che offrono il loro ventre alla frusta per propiziare la nascita del figlio.

Alla corsa assiste anche Cesare, vestito di porpora, seduto su un seggio dorato e incoronato d’alloro. Tra i luperci c’è Marco Antonio. Terminata la corsa, inaspettatamente, offre a Cesare un diadema. Cicerone, che molto probabilmente è testimone oculare dei fatti, racconta che Antonio, finito il rito, tiene un discorso, lasciando costernato il magister equitum Lepido che non approva ciò che stava accadendo, offrendo il diadema a Cesare.

Il dictator, però, si accorge della disapprovazione del popolo e rifiuta la corona. Antonio allora si getta ai piedi di Cesare supplicandolo di accettare; ma Cesare rifiuta nuovamente, tanto che Antonio rinuncia.

Per gli storici, da questo episodio si diffonde nei confronti di Cesare l’accusa di adfectatio regni, ovvero di “aspirazione alla tirannide”: per la prima volta, infatti, durante una manifestazione pubblica, si stabilisce una connessione simbolica tra Romolo, il primo re, allattato nella grotta di lupercal, e Cesare.

Che dobbiamo morire lo sappiamo. Ma è il numero dei giorni, e l’ora, e il momento che soprattutto preoccupano l’uomo.
(“Giulio Cesare”, W. Shakespeare – Atto III, scena I)

L’assassinio di Cesare

Perché i senatori scelgono il 15 marzo come giorno propizio per la congiura? Per praticità: Cesare, infatti, tre giorni dopo dovrebbe partire per una campagna militare contro i Geti e i Parti. Non a caso gli amici del dictator diffondono una presunta profezia dei Libri Sibillini nella quale si afferma che i Parti sarebbero stati sconfitti da un re.

Contrariamente a quanto si pensa, l’assassinio di Cesare non si consuma nel palazzo del Senato, nel Foro, ma in quello che oggi è conosciuto come Largo di Torre Argentina.

Quel giorno, infatti, è prevista una festa in onore di Anna Perenna, l’antica dea romana che presiedeva al perpetuo rinnovarsi dell’anno, che si svolge nel Teatro di Pompeo. Nell’adiacente Curia, Bruto, con la scusa della festa, stanzia un plotone di gladiatori. A raccontare l’assassinio è Svetonio, che così descrive la messa in atto della congiura:

Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì [42], colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido.

I congiurati pugnalarono ventitré volte Cesare, che, secondo la tradizione storiografica, morì ai piedi della statua del suo vecchio nemico, Pompeo Magno. Tra gli assassini si annoverano Casca (il primo a colpirlo al collo), Decimo Giunio Bruto (legato di Cesare in Gallia, ufficiale della flotta nella guerra contro i Veneti), Marco Giunio Bruto (figlio di Servilia Cepione, amante di Cesare) e Gaio Cassio Longino (riuscito a sopravvivere alla disfatta di Carre e, successivamente, divenuto uno degli ufficiali di Pompeo a Farsalo). Congiurati che si ribattezzano liberatores.

Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa.
(“Giulio Cesare”, W. Shakespeare – Atto III, scena II)

La nascita dell’Impero

La congiura, tuttavia, fallisce il suo obiettivo primario: salvare la Repubblica. La morte di Cesare, infatti, innesca una serie di eventi e circostanze che portano Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Cesare, ad emergere sulla scena del comando. Anche il popolo non vede di buon occhio l’assassinio dell’uomo che tanta gloria aveva dato, in battaglia, a Roma.

Eletto come console, Ottaviano propone la lex Pedia che condanna all’esilio tutti i cesaricidi. Dopo aver combattuto la guerra civile contro Marco Antonio, è proprio l’erede di Cesare a porre fine alla Repubblica, instaurando il principato. Molti degli assassini di Cesare muoiono uno dopo l’altro, entro un anno dalla congiura delle idi di marzo nelle lotte intestine che vedono la vittoria dei cesariani sui repubblicani.

Gli ultimi a morire sono Bruto e Cassio, travolti da Ottaviano nella battaglia di Filippi nel 42 a.C. A loro, Dante Alighieri, riserva un posto nella parte più profonda dell’Inferno, la Giudecca, condannati per l’eternità ad essere masticati nelle fauci di Lucifero, assieme a Giuda Iscariota, poiché considerati traditori dell’impero.

Di Cesare, oggi, rimangono le grandi imprese militari e politiche, giunte a noi grazie ai suoi scritti. E una statua di bronzo, posta a ridosso del Foro, nel centro di Roma. Ogni anno, il 15 marzo, una mano ignota, posa ai piedi di quella statua una rosa rossa. Petali come “gocce scarlatte che visitano il cuore” (“Giulio Cesare”, W. Shakespeare – Atto V, scena V).

(Il Faro online)