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16 ottobre 1943: la deportazione degli ebrei di Roma verso Auschwitz

16 ottobre 2019 | 14:23
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16 ottobre 1943: la deportazione degli ebrei di Roma verso Auschwitz

“I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini, vecchi e ammalati. Non sapevamo dove ci avrebbero portato”

Roma – Era il 16 ottobre 1943: un sabato, giorno festivo per gli ebrei, che sarebbe passato alla storia come il “sabato nero”. Alle prime luci dell’alba, infatti, ebbe inizio il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma: ben 1024 persone (fra cui oltre 200 bambini) furono fatte prigioniere dalle truppe tedesche, le SS, che con le loro camionette invasero le strade del Portico d’Ottavia.

I cinquanta chili d’oro

Il 25 settembre del 1943 il tenente colonnello Herbert Kappler aveva ricevuto un preciso ordine da Berlino: procedere al rastrellamento del ghetto di Roma. Kappler, però, temeva una ritorsione da parte dei carabinieri italiani, e quella stessa sera decise di convocare i massimi rappresentanti della comunità ebraica di Roma: Ugo Foà, presidente della Comunità Israelitica, e Dante Almansi, presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane.

Ai due Kappler chiese ben cinquanta chili d’oro in cambio della salvezza, e loro accettarono. La consegna dell’oro avverrà a via Tasso, oggi sede del Museo Storico della Liberazione. La pesatura venne eseguita con una bilancia della portata di 5 chili, sotto l’occhio vigile di Almansi e di un ufficiale tedesco. L’intera comunità ebraica, che non era al corrente dell’accordo, ne verrà a conoscenza solo a scambio eseguito.

Berlino, però, non cambiò idea. Nei primi giorni d’ottobre, infatti, il governo tedesco inviò a Roma il capitano delle SS Theo Dannecker – uomo di fiducia del temuto Eichmann – per procedere alla deportazione e velocizzare i tempi. Il 16 ottobre del 1943, dunque, ebbe inizio la retata.

La deportazione

I prigionieri vennero rinchiusi, su ordine di Kappler, nel Collegio Militare di Palazzo Salviati, in via della Lungara, sul lungotevere, poco distante dal luogo del blitz. Due giorni dopo l’allontanamento dal ghetto, però, gli ebrei furono condotti nei 18 vagoni del convoglio che, dalla stazione Tiburtina, li avrebbe portati a morire nel grande campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia.

Sarebbe stato un viaggio verso la morte; tra gli stenti, la fame, il freddo, le camere a gas e, per i più “fortunati”, verso i lavori forzati. Non solo: in molti furono costretti ad uccidere i propri compagni, su ordine dei nazisti.

Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa, sarete trasferiti. Dovrete portare con voi viveri per almeno otto giorni, documenti, bicchieri, denaro, gioielli ed effetti personali.

E’ la comunicazione che fu recapitata ad ogni famiglia, venti minuti prima del prelievo, da parte delle truppe. I nazisti bussarono alle porte lasciando un bigliettino dattiloscritto e con l’ordine di “fare presto”. “I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini, vecchi e ammalati. Non sapevamo dove ci avrebbero portato”, riportano alcune testimonianze.

Fino a quel momento, gli ebrei, così come la maggior parte del mondo, non sapevano cosa fossero i campi di concentramento. “Partirete per un campo di lavoro in Germania – disse loro Kappler -. Gli uomini lavoreranno, le donne baderanno ai bambini e si occuperanno delle faccende di casa. Vi porteremo nel campo ad aspettare la fine della guerra”.

Al quartier generale di Berlino, però, il tenente colonnello di stanza a Roma riferì tutt’altro, avvisandoli che “l’azione contro i giudei era iniziata e che si era conclusa in giornata nel migliore dei modi possibili e secondo i piani prestabiliti”.

La superstite Settimia Spizzichino: “Dovevo ritornare per raccontare tutto”

Dei 1024 ebrei catturati quel 16 ottobre 1943, ne sopravvissero solamente sedici. Fra questi, solo una donna, Settimia Spizzichino.

“Non capivo niente”, raccontò Spizzichino, morta il tre luglio del 2000, in una delle sue testimonianze. “Mi hanno usata per condurre degli esperimenti dolorosi: dalla scabbia al tifo. Quello più doloroso è stato per la scabbia: era una cosa atroce, ero diventata tutta una piaga. Ma io lottavo! Quante volte ho chiamato Dio quando vedevo quei poveri morti in terra trucidati. Ma io lottavo, lottavo per ritornare. Dovevo ritornare per raccontare tutto”.

De Vito: “L’anniversario sia un monito per non dimenticare”

“Il 16 ottobre 1943 è, senza dubbio, un anniversario che riporta alla mente uno dei capitoli più atroci della storia della nostra città”. Così, in una nota, il presidente dell’Assemblea Capitolina Marcello De Vito.

“Portico d’Ottavia, dove avvenne il rastrellamento degli ebrei romani – spiega De Vito -, non è solo un luogo che racconta di una persecuzione ma è soprattutto un monito – in particolare per le giovani generazioni – perché l’umanità non dimentichi“.

(Il Faro online)