Sinodo per l’Amazzonia, il Papa: “Basta cristiani che professano la religione dell’io”

27 ottobre 2019 | 10:29
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Sinodo per l’Amazzonia, il Papa: “Basta cristiani che professano la religione dell’io”

Papa Francesco chiude i lavori del Sinodo speciale sull’Amazzonia con la Santa Messa presieduta nella basilica vaticana e risponde alle accuse di eresia dell’assemblea dei vescovi: “Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io”

di FABIO BERETTA

Città del Vaticano – Se dalla preghiera togliamo l’amore verso Dio e verso il prossimo, sentendoci creditori, non “professiamo la religione di Dio”, ma quella “dell’Io”. Possiamo anche “osservare i comandamenti” alla lettera, “ma anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla”.

In una basilica di San Pietro gremita di fedeli, provenienti in particolar modo dal Sud America, Papa Francesco presiede la messa di chiusura del Sinodo Straordinario dei Vescovi, celebrato in questi giorni in Vaticano. All’interno delle mura leonine, i presuli, per tre settimane, hanno riflettuto sull’Amazzonia, alla ricerca di “nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale” della regione che occupa il polmone verde del pianeta. Un polmone che al suo interno custodisce un ecosistema unico al mondo assieme a popolazioni indigene che, nel corso dei secoli, sono venute a contatto con la religione cattolica.

Proprio loro, gli indios, in queste settimane, sono stati i protagonisti del Sinodo, sfilando e pregando nella basilica di San Pietro nei loro abiti tipici e con indosso i copricapi piumati. Scene che non sono piaciute a diversi credenti, tanto da definire questi momenti di preghiera (e il Sinodo in generale) un’eresia (leggi qui).

Preghiere senza amore

Francesco prende spunto da queste aspre critiche per ricordare che la religione cattolica non cancella la cultura di un popolo, al contrario si innesta su di essa e la arricchisce. Il monito del Papa arriva nell’omelia, durante la quale ripercorre a grandi linee la parabola del “fariseo e del pubblicano”.

Il fariseo, fa notare il Pontefice, “si vanta perché adempie al meglio precetti particolari. Però dimentica il più grande: amare Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40). Traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé. È senza amore”.

E senza amore, qual è il risultato? Che alla fine, anziché pregare, elogia se stesso. Infatti al Signore non chiede nulla, perché non si sente nel bisogno o in debito, ma in credito. Sta nel tempio di Dio, ma pratica la religione dell’io”, sottolinea il Santo Padre.

Che aggiunge: “E oltre a Dio dimentica il prossimo, anzi lo disprezza”, cioè “non ha prezzo, non ha valore. Si ritiene migliore degli altri”, che considera “scarti da cui prendere le distanze”.

Quante volte vediamo questa dinamica in atto nella vita e nella storia! Quante volte chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti.

Poi, implicitamente, un riferimento alle statuette indigene trafugate dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina e gettate nel Tevere da alcuni cattolici perché, a loro avviso “idolatre”.  Statuette ritrovate intatte e restituite. Nei giorni scorsi, Papa Francesco ha chiesto scusa per questo furto.

Oggi, torna a bacchettare quei credenti che ritengono questi popoli “arretrati e di poco valore, ne disprezza le tradizioni, ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni. Quante presunte superiorità, che si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi!”.

Poi, un riferimento al pianeta: “Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra: l’abbiamo visto nel volto sfregiato dell’Amazzonia. La religione dell’io continua, ipocrita con i suoi riti e le sue ‘preghiere’, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo”.

Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi. Chiediamo a Gesù di guarirci dal parlare male e dal lamentarci degli altri, dal disprezzare qualcuno: sono cose sgradite a Dio.

Lasciarsi guardare dentro

Il Papa pone quindi l’accento sul secondo modello di preghiera del pubblicano: “Egli non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà: non una povertà economica ma una povertà di vita, perché nel peccato non si vive mai bene”.

Una preghiera, fa notare il Pontefice, “fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri. Infatti, mentre il fariseo stava davanti in pied, il pubblicano sta a distanza”, “si batte il petto”, “perché nel petto c’è il cuore”.

La sua preghiera nasce dal cuore, è trasparente: mette davanti a Dio il cuore, non le apparenze. Pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni. Perché dal diavolo vengono opacità e falsità, da Dio luce e verità. È stato bello e ve ne sono grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze.

Il Pontefice invita tutti a guarda il pubblicano come un punto da cui ripartire: “dal crederci bisognosi di salvezza, tutti. È il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero”.

Invece, sottolinea il Papa, “la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti. Ritenersi giusti è lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa”.

Se ci guardiamo dentro con sincerità, vediamo in noi tutti e due, il pubblicano e il fariseo. Siamo un po’ pubblicani, perché peccatori, e un po’ farisei, perché presuntuosi, capaci di giustificare noi stessi, campioni nel giustificarci ad arte! Con gli altri spesso funziona, ma con Dio no. Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio.

Ascoltare le voci dei poveri

Infine, il Papa riflette sulla preghiera del povero, una preghiera che, come dice il Siracide, “attraversa le nubi”. Infatti, “mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo, quella del povero sale dritta a Dio”.

Il senso della fede del Popolo di Dio ha visto nei poveri “i portinai del Cielo”: sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana.

E conclude: “In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare ma come casa da custodire, confidando in Dio”.

Da qui l’invito, rivolto a tutta la Chiesa, di ascoltare “le voci dei poveri”, che spesso “vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera attraverserà le nubi”.

(Il Faro online)