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Le pandemie più famose della storia, raccontate dalla letteratura

30 marzo 2020 | 08:30
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Le pandemie più famose della storia, raccontate dalla letteratura

Da Tucidide a Susan Sontag, passando per Lucrezio, Procopio, Boccaccio e Manzoni: un viaggio fra le più autorevoli testimonianze delle pandemie che funestarono il mondo nei secoli (e nei millenni) scorsi

Era l’11 marzo quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava il coronavirus una pandemia (leggi qui). Ma cos’è, di preciso, una pandemia?

Cosa vuol dire “pandemia”?

Il sostantivo, che deriva dal greco pan-demos (letteralmente “tutto il popolo”), individua una malattia epidemica che, espandendosi rapidamente, si diffonde in vaste aree geografiche del mondo, coinvolgendo quindi una percentuale significativa della popolazione globale.

Tra pandemie e letteratura: le testimonianze più celebri della storia

La letteratura è, da sempre, un formidabile strumento di trasmissione della memoria storica. Ed è proprio grazie ad essa se, oggi, conserviamo le testimonianze (talvolta dirette, talvolta indirette) degli eventi più importanti della storia dell’umanità, tra i quali sono comprese – purtroppo – molte epidemie e pandemie. Ripercorriamo, allora, le più tristemente famose, rigorosamente in ordine cronologico e affidandoci a quegli autori che, grazie al loro racconto, ce ne hanno offerto un quadro sorprendentemente preciso e dettagliato.

La “peste” di Atene

“[…] la peste si manifestò per la prima volta agli Ateniesi: nonostante si dicesse che, in passato, questa si fosse già abbattuta su altre zone, in nessun luogo si ricordava una simile pestilenza né una così grande strage di persone. I medici, infatti, non solo non erano in grado di curare il male per mancanza di conoscenze, ma essi stessi morivano perché si accostavano ai malati; e il rivolgere preghiere e suppliche ai luoghi sacri o agli oracoli fu del tutto inutile, tant’è che, alla fine, desistettero, vinti dal male”.

Così Tucidide, il celebre storico greco vissuto nel V secolo a.C., iniziava a raccontare la “peste” che nel 430 a.C. colpì la città-stato di Atene. E’, questa, la prima grande pandemia di cui la storia abbia conservato memoria, anche e soprattutto grazie alla testimonianza dell’autore ateniese. Su cosa fosse di preciso questa “peste”, però, gli studiosi sono a tutt’oggi divisi: i sintomi, che Tucidide descrive dettagliatamente nel secondo libro della sua Guerra del Peloponneso, sono infatti riconducibili al vaiolo, ma anche al tifo e al morbillo.

A prendere ispirazione dal racconto di Tucidide sarà poi un altro grande esponente della letteratura classica, il romano Lucrezio, vissuto nel I secolo a.C. e autore del rivoluzionario De rerum natura, in cui descrive la peste che colpì Atene come “un morbo e flusso mortifero che sparse i campi di cadaveri, devastò le strade e vuotò la città di abitanti”.

Il morbo di Giustiniano

Quella che si abbatté sull’Impero bizantino – e, soprattutto, sulla sua capitale Costantinopoli – tra il 541 e il 542 d.C. fu una pandemia di peste bubbonica causata dallo stesso batterio che, nel XIV secolo, avrebbe messo in ginocchio l’Europa intera. Procopio, storico bizantino vissuto fra il V ed il VI secolo, racconta di come, al suo culmine, la malattia uccidesse ben 100mila persone al giorno nella sola Costantinopoli: questo numero, forse un po’ gonfiato dalle circostanze di panico ed allarme diffusi (oggi gli studiosi parlano piuttosto di circa 5000 decessi al giorno), è però indicativo della percezione – e dell’immensa paura – che i contemporanei ebbero della pandemia. Questa, infatti, uccise il 40% della popolazione della capitale bizantina, costituendo una tragedia senza precedenti.

Il cosiddetto “morbo di Giustiniano”, poi, ebbe pesanti conseguenze anche sulla guerra gotica (535-553 d.C.), permettendo agli Ostrogoti di occupare la penisola italiana, già travolta dalla malattia. Secondo lo stesso Procopio, infatti, nel 546 d.C. la città di Roma rimase quasi priva di abitanti per alcuni mesi: e questo perché Totila, re degli Ostrogoti, decise di deportare in Campania i – pochi – cittadini sopravvissuti alla peste.

La peste nera

decameron

Xaver Winterhalter, “Il Decameron”, 1837.

La peste nera che straziò l’Europa arrivò in Italia intorno al 1348. La malattia, proveniente dalla Cina, si diffuse ben presto in ogni angolo del nostro continente, uccidendone almeno un terzo della popolazione. Fu debellata solo nel 1353. A raccontarcene – meglio di chiunque altro avrebbe potuto fare – gli effetti sulla società del tempo è, com’è noto, il grande Giovanni Boccaccio: testimone oculare del diffondersi della malattia, infatti, nel suo Decameron (composto, pare, proprio fra il 1349 ed il 1353) il poeta fiorentino narra la storia di dieci giovani che decidono di allontanarsi da Firenze per dieci giorni, nella speranza di sfuggire al contagio. E così, per tenersi compagnia, decidono di raccontare, a turno, dieci novelle ogni giorno, prestabilendo un tema a cui attenersi: è, questo, un disperato tentativo di mantenere intatto quel mondo in cui i giovani erano vissuti sino a quel momento, e che la peste stava spazzando via con sorprendente violenza.

Boccaccio, però, non chiamerà mai la peste col suo nome: servendosi di numerose perifrasi (come “mortifera pestilenza”), riuscirà tuttavia a restituircene un’immagine incredibilmente accurata.

La peste del 1630

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Lodovico Cardi (attribuito a), “La peste a Firenze nel 1630”, prima metà del XVII secolo.

Nel XVII secolo, però, la peste tornò a terrorizzare l’Italia: il morbo si diffuse, infatti, nel settentrione (e soprattutto nel Ducato di Milano), uccidendo circa un milione di persone fra il 1629 ed il 1633. Pur non essendo mai stata classificata come una pandemia – vista la sua contenuta espansione geografica, che arrivò però ad interessare anche il Granducato di Toscana e la Svizzera -, merita d’essere menzionata in quest’elenco per la celebre descrizione che Alessandro Manzoni ne fa ne I promessi sposi.

“Ma sul finire del mese di marzo – si legge nel XXXI capitolo de I promessi sposi -, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi”.

Non è un caso, infatti, che la malattia sia passata alla storia col nome di “peste manzoniana”: pur non essendone – ovviamente – un testimone oculare (Manzoni è nato nel 1785), l’autore milanese, servendosi di archivi e documenti dell’epoca, riuscì a ricostruire con straordinaria aderenza storica il diffondersi del morbo. I promessi sposi, ambientato fra il 1628 ed il 1630 proprio in Lombardia, è infatti universalmente considerato il primo esempio romanzo storico della nostra letteratura, oltre che l’opera più rappresentativa del romanticismo italiano.

L’Hiv/Aids

oliviero toscani

La campagna di sensibilizzazione sull’Hiv di Oliviero Toscani per United Colors Of Benetton, 1993.

Era il 1981 quando, negli Stati Uniti, alcuni pazienti manifestarono i primi sintomi di quella che sarebbe poi stata riconosciuta come una “nuova malattia”: la sindrome da immunodeficienza acquisita, o Aids, causata dal virus Hiv (Human Immunodeficiency Virus). Si diffuse rapidamente in tutto il mondo, divenendo ben presto una pandemia – per l’Oms, è tutt’oggi in atto -; ma, al contrario di tutte quelle sino ad allora conosciute, ebbe per molto tempo una percentuale di mortalità drammaticamente vicina al 100%. Inoltre, una volta individuata la sua correlazione con l’attività sessuale e l’uso di droghe (l’eroina), divenne sin dagli inizi oggetto di una pesante stigmatizzazione sociale: ancora oggi, purtroppo, in alcune parti del mondo, si è reso necessario l’intervento di specifiche norme legislative per porre un freno alla discriminazione sociale che l’essere sieropositivi può comportare.

A raccontarci l’impatto che la malattia – che fu talvolta additata come “cancro gay”, a dimostrazione dell’idea totalmente errata e assolutamente discriminatoria che se ne aveva all’epoca – ebbe sull’immaginario collettivo è una gigante della letteratura americana contemporanea, Susan Sontag: in L’Aids e le sue metafore, infatti, l’autrice spiega come la paura dell’Aids rafforzò la cultura dell’individualismo e dell’isolamento, modificando mentalità e comportamenti dell’intera comunità globale.

Alla cosiddetta “influenza spagnola” (che arrivò ad infettare, fra il 1918 ed il 1920, circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, uccidendone 50 milioni), della quale non risultano esserci esplicite testimonianza letterarie, abbiamo dedicato l’immagine di copertina: un quadro del 1915 di Egon Schiele (che, assieme alla moglie incinta, ne morì), “La morte e la fanciulla”, una sorta di macabra anticipazione di quel che sarebbe stato.

(Il Faro online)