L'intervista |
Cronaca Locale
/

Michela, in corsia dopo la laurea: “Noi giovani infermieri subito in trincea contro il Covid-19”

12 aprile 2020 | 06:30
Share0
Michela, in corsia dopo la laurea: “Noi giovani infermieri subito in trincea contro il Covid-19”

La testimonianza di una giovane infermiera che pochi giorni dopo i festeggiamenti della laurea ha iniziato a prestare servizio nel Covid hospital di Casal Palocco

Roma – Quella al coronavirus è davvero una guerra e in Italia, come in tutto il mondo, l’esercito sceso in campo per fronteggiare questo nemico invisibile e sconosciuto non veste la mimetica, ma il camice e la mascherina. Medici, infermieri, personale sanitario, qualcuno con molti anni di esperienza alle spalle, altri giovanissimi. Ragazzi e ragazze che fino a poche settimane fa erano tra i corridoi dell’università mentre ora si ritrovano in prima linea, ovvero nelle corsie di un ospedale. Coraggiosi e forti, sono anche i più esposti, e la paura è oramai una presenza costante nelle loro vite.

Ce lo racconta Michela, 23 anni, laureata in infermeria il 12 marzo all’Università di Tor Vergata presso, il polo formativo Sant’Eugenio. Appena dieci giorni dopo la proclamazione si è tolta la corona d’alloro per mettersi guanti e mascherina nei reparti del Covid 3 di Casal Palocco, struttura sanitaria in appoggio all’Ospedale Spallanzani di Roma. “Quando ho ricevuto la comunicazione per iniziare a lavorare a stretto contatto con i pazienti affetti da Covid-19 ho provato solo tanta paura – dice a ilfaroonline.it -. Ma non ci ho pensato due volte e ho accettato l’incarico. Non mi sono tirata indietro e ho dato subito la mia disponibilità”.

Al Covid 3, come negli altri ospedali, la lotta al coronavirus è aspra. Dagli ultimi dati diffusi dall’Unità di Crisi Covid-19 della Pisana, nel Lazio l’età meda dei casi positivi è 58 anni (51 per cento è di sesso maschile, il 49 per cento di sesso femminile). “Ma nei reparti ci sono pazienti di tutte le età. A Casal Paolocco la persona più giovane avrà una trentina d’anni, non di più. Questo coronavirus non risparmia nessuno”, sottolinea Michela.

La sua giornata inizia molto presto. La sveglia suona prima dell’alba: “Alle 5 del mattino sono in piedi e dopo mezzora sono già in strada per raggiungere l’ospedale”. L’attendono sette ore di lavoro, tanto dura il turno. “Quando arrivo mi infilo la divisa e poi salgo in reparto”. E qui la paura si fa sentire. “Fuori c’è tutto l’occorrente per vestire le protezione individuali. Indossarle è la cosa più importante e va fatto in modo preciso e scrupoloso, altrimenti rischiamo il contagio. Per questo siamo sempre in due a farlo: io controllo la collega e lei controlla me proprio per evitare di ridurre al minimo gli errori. Basta un piccolo gesto per essere contagiati. Questa è la paura più grande che ci attanaglia”.

“In dotazione abbiamo mascherina ffp2, sopra la quale mettiamo la mascherina chirurgica, poi il camice, la cuffia e gli occhiali. Ovviamente anche i guanti: ne mettiamo un paio fuori e un paio dentro al reparto, quando entriamo”. E una volta varcate le porte parte la battaglia, quella vera.

Ogni giorno la “missione” cambia: “A seconda delle esigenze prestiamo servizio in terapia intensiva, o a malattie infettive (che si divide in medicina 1, medicina 2 e medicina 3, ndr). In base ai reparti si hanno mansioni diverse, che possono variare anche a seconda delle emergenze”.

“La cosa più importante del nostro lavoro è però controllare i parametri vitali dei pazienti perché possono precipitare in qualsiasi momento – racconta ancora Michela -. Bisogna gestire bene l’ossigeno. Abbiamo pazienti più gravi e meno gravi e a seconda della persona ci sono delle disposizioni diverse. Il nostro compito è anche quello di somministrare la terapia antivirale come da schema“. Ma non è facile.

Nel lungo turno di sette ore (che diventa di dieci quando si fa la notte), non ci sono pause, “il livello di attenzione è sempre massimo. Non pensi ad altro se a non compiere bene i compiti che ti sono stati assegnati. Le protezioni che indossiamo, anche se necessarie, spesso posso essere d’ostacolo. Sono pesanti e scomode. Ci capita di dover inserire un ago canula e gli occhiali ti si appannano perché fa caldo, si suda”.

E lo stress e la paura non diminuiscono nemmeno a fine turno. “Svestire le protezioni, come indossarle, va fatto in maniera scrupolosa. E la paura di essere contagiati è sempre lì“.  Tornata a casa, la paura non l’abbandona. “Vivo con la mia famiglia e il timore di poter contagiare le persone a cui voglio più bene c’è. Dentro casa cerco di stare il più lontano possibile, per quanto difficile sia, dai miei familiari. Ci sono però momenti in cui il contatto è inevitabile, come il pranzo o la cena dove si sta al tavolo tutti insieme”.

“I miei genitori – rivela Michela – quando hanno saputo che avrei prestato servizio in un Covid hospital mi hanno detto: ‘Conosci te stessa e le capacità che hai, se ti senti pronta vai‘. Nessuno della mia famiglia mi ha spinto per farmi tirare indietro, anzi ho avuto il giusto incoraggiamento”.

“La notte cerco di riposarmi e di dormire il più possibile per dare poi il meglio il giorno dopo. Questo virus ha acceso in tutti la paura e in primis ce l’abbiamo noi. Cerco di non pensarci ma è tutto inutile. Quando torno dall’ospedale trovo in tv programmi che parlano solo di coronavirus e il pensiero torna sempre lì, a quei letti”.

“Se mi sento sufficientemente preparata per affrontare questo compito? Assolutamente si, poi nella vita non si smette mai di imparare. Certamente l’esperienza si fa sul campo, ma le basi che abbiamo ricevuto durante la formazione universitarie sono buone. Non metto in dubbio la scelta del Governo di mettere in corsia giovani infermieri e medici che fino a pochi giorni prima erano in un’aula di università. Essendo una malattina nuova nessuno avrebbe saputo gestirla bene come un virus già conosciuto. La sfida è tosta e per affrontarla servono le energie dei giovani. Forse bisogna equilibrare le forze dei giovani con chi ha più anni di esperienza. Personalmente mi trovo molto bene ma non per tutti è stata la stessa cosa”.

(Il Faro online)