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Rino Renzo Palmieri: “Cambiare le regole aziendali per frenare la recessione e rilanciare l’economia”

24 maggio 2020 | 19:37
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Rino Renzo Palmieri: “Cambiare le regole aziendali per frenare la recessione e rilanciare l’economia”

Riflessioni dello scrittore Rino Renzo Palmieri sul nuovo corso che si dovrà assumere nei rapporti tra proprietà e lavoratori per battere la recessione e rilanciare l’economia italiana

Roma – L’epidemia con il conseguente lockdown sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale e, di riflesso, anche quella italiana. Le ripercussioni sono pesanti e la ripresa dalla recessione sarà faticosa, tale da imporre nuove strategie e nuovi equilibri sia nel rapporto con il mercato che all’interno delle singole aziende.

Rino Renzo Palmieri, ingegnere e scrittore, autore tra gli altri del volume “Pensieri in libertà” (editore Book Sprint), ha redatto un articolo per ilfaroonline nel quale si affronta con coraggio e lucidità uno dei temi economici più scottanti ovvero la necessità di rivedere i rapporti tra lavoratori e imprenditori.  La domanda che ne consegue è: nella crisi profonda provocata dalla pandemia e nella necessità di recuperare quote di mercato perse a vantaggio delle produzioni più “protette”, ha ancora senso parlare di lotta di classe in Italia?

L’INTERVENTO

Rino Renzo Palmieri, l’autore dell’articolo

Stiamo vivendo in questo periodo la pandemia del corona virus, che  ha registrato quasi 32.000  decessi in Italia,  su oltre 225.000 contagi (oltre 140.000 decessi in tutta l’Europa).

Il  Capo del Governo Conte si è improvvisato con successo  come novello Cincinnato, facendo subire a tutti gli italiani una radicale modifica delle proprie abitudini, riassunta nell’inaudito slogan  “ restatein casa “, con sospensione delle attività produttive commerciali, ad esclusione di quelle di stampo alimentare e  sanitario, chiarito dai media nostrani con l’espressione lock–down, anzichè per esempio: serrata, chiusura, etc.,termine comunque tollerabile stante la diffusione mondiale dell’epidemia.

Lo sforzo è  quello di frenare il dilagare della pandemia, che molto dipende dall’evitare il contatto fisico ravvicinato tra le persone, aspetto che è tenuto sotto controllo dalle  forze dell’ordine con: 1 – l’imperativo di una distanza minima interpersonale non inferiore al metro ( detta  distanzasociale , copiando: “social-distancing”, ma peraltro definito distacco asociale,  da esponenti di rilievo della Chiesa). 2 – l’uso delle mascherine filtranti del proprio respiro, capaci di trattenere nei due sensi le goccioline  porta virus, e cioè quelle esterne aeriformi e quelle uscenti da bocca e naso per tossi e sternuti,tutte meglio spiegate, per gli anglofili,  col termine droplets.

La sostanziale uniforme disciplina – con la quale sono stati accolti i ripetuti decreti del Capo del Governo volti alla  graduale messa a  fuoco delle iniziative di contrasto – alimenta la fiducia nel successo di una lotta per il ripristino delle condizioni di vita alle  quali si era abituati, pur non sottovalutando  la lezione nei comportamenti che la pandemia ci ha impartito.

La previsione di un’abbondante disponibilità di finanziamenti di origine europea  –   carpiti con estenuanti trattative come condizione per una robusta ripresa dopo la forzata stagnazione – lascia intravedere un lungo periodo di sferzanti sacrifici, dovendo comunque restituire – seppure in parecchi anni –  i finanziamenti che saranno concessi, fatti salvi eventuali contributi a fondo perduto. Un gravame comunque non indifferente che si aggiungerà al debito pubblico attuale  di circa 2.500 miliardi di euro, equivalente ad un debito pro capite di circa 43.000 euro, lattanti compresi. Un impegno che  prevedibilmente si trascinerà fino ad interessare le prossime generazioni.

Queste onerose prospettive saranno infine sostenibili, ma dovranno indurre ciascuno di noi italiani ad un rinnovato sentimento di  serietà e di responsabilità, frutto di una revisione critica dei comportamenti sociali, fin qui accettati o tollerati, per i quali si convive ancora con la corruzione e si subiscono le prevaricazioni delle minoranze piccole e grandi. Ad esser brevi si dovrà superare il concetto bellico di lotta di classe, che ci accompagna dal dopoguerra, come espressione del vetero-comunismo di importazione e che pilotava tale filosofia – adottata nel dopoguerra da gruppi minoritari – per tentare verosimilmente la conquista del potere o quantomeno l’imposizione di benefici economici. 

I  tempi sembrano maturi per  sostenere le concezioni democratiche del confronto civile, esente da prevenzioni ideologiche, della disciplina   e del controllo sistematico dei risultati.

Ne facciamo un breve elenco,cominciando dallo sciopero, che –pur riconosciuto come lecito dalla costituzione nel rispetto delle apposite leggi  – è in realtà un esercizio di violenza inammissibile per l’equilibrio di una società civile, che si regge sul regolare funzionamento dei propri organi.

Casi di interesse:

Scioperi dei pubblici dipendenti, nei ministeri e nei trasporti pubblici: comportano disagi alla maggioranza, impegnata nelle proprie attività ed estranea al merito della vertenza sindacale,  base dell’agitazione, a sostegno di rivendicazioni economiche.

Se gli scioperi fossero da taluno considerati come un’arma indispensabile nella condotta delle vertenze sindacali, merita una citazione il comportamento della categoria dei militari  (carabinieri.polizie, etc.) i quali acquisiscono civilmente,in tempo di pace, il miglioramento dei trattamenti economici, tramite ripetute sedute a confronto con l’autorità pertinente.

Va da sé che nulla vieta un confronto civile di tal tipo anche per le rivendicazioni che promuovono i vari comparti del personale civile. E’ necessario però aggiungere che la controparte pubblica,di volta in volta pertinente, deve essere a sua volta rispettosa delle scadenze contrattuali,  a suo tempo concordate,  come qualsiasi controparte in buona fede. Se al contrario non lo fosse, sarebbe sentita come una forma di violenza inaccettabile, e tale da offrire giustificazione per uno sciopero di reazione.

Sul tema dei miglioramenti economici per i dipendenti pubblici, si sente talvolta circolare una risibile obiezione ufficiosa che non ci sono i soldi a giustificazione del mancato rispetto ( per oltre 3 anni, lamenta un autista) della maturata scadenza contrattuale. Una giustificazione gratuita e peregrina – quella del disavanzo pubblico –  proponibile solo da funzionari impreparati o male indottrinati, e comunque inadatti per un serio confronto coi delegati del personale.

Scioperi dei  dipendenti privati – oggi ammessi come forme di pressione sul datore di lavoro, se si esercitano entro i confini dell’unità produttiva –  si degradano talvolta in forme di violenza contro gli inermi cittadini quando – ad esempio – si convertissero in blocco della circolazione stradale, sia locale che a distanza di chilometri -purchè si riveli efficace al preciso scopo di provocare l’intervento mediatore del Governo.

Anche questa forma lecita di lotta sindacale appartiene ormai al passato, come un aspetto della superata lotta di classe, tra la categoria detta dei proletari  e quella detta dei padroni. Rinunciando comunque a qualsiasi forma di violenza, anche il concetto di  lotta sindacale  dovreessere accantonato.

Rapporti intersindacali. Le trattative – che vedano un datore di lavoro acculturato e dei dipendenti cresciuti in scuole di formazione professionale, gente cioè che parli  la stessa lingua – dovrebbero  assumere l’aspetto di un pacato consiglio  di amministrazione  tra  persone di buonsenso, senza riserve mentali, piuttosto che quello di un rancoroso e sterile dibattito a base di  reciproche accuse .                                                                                                                                      Dovrebbe primeggiare un dibattito sui risultati pregressi della gestione aziendale, sulle innovazioni in studio e sui miglioramenti salariali che emergessero come praticabili, in quanto ininfluenti sulla capacità di sopravvivenza dell’azienda, aspetto questo di interesse fondamentale per i dipendenti stessi, oltre che per i detentori del capitale impegnato.

La presenza – infine – nelle trattative di un rappresentante qualificato del Governo dovrebbe essere considerata naturale, essendo lo Stato socio a tutti gli effetti, in qualità di: –percettore fiscale della quota utili di bilancio ; – partecipe alle perdite; – eventuale finanziatore delle innovazioni in studio; – erogatore, al bisogno, di cassa integrazione a sostegno dell’azienda per il regolare trattamento  dei dipendenti in attività, a provvisoria compressione dei costi del lavoro,  in attesa della operatività delle innovazioni.

Alla luce di quanto precede lo Statuto dei Lavoratori, cioè dei diritti dei lavoratori, andrebbe sostituito con un più significativo Statuto dell’Azienda, un manuale per l’equa ripartizione dei risultati di bilancio, e che preveda inoltre una concertata flessibilità dei diritti dei dipendenti,in accordo con le fortune aziendali.

Il partenariato –  la partecipazione dei lavoratori al capitale aziendale – è un vocabolo che non ha avuto finora un marcato successo, anche per la comprensibile avversione delle centrali sindacali, timorose di perdere imponenti masse di aderenti, idonee ad influenzare la politica con mobilitazioni di piazza, iniziative non più attuali, prevalendo – almeno per il momento – le durevoli precauzioni sanitarie. Singolare circostanza questa che darebbe oggi una decisiva spinta al partenariato, che vede il dipendente come datore di lavoro di sè stesso.

Rino Renzo Palmieri