Minigonne al liceo Socrate di Roma, l’inutile massacro di una vicepreside

18 settembre 2020 | 20:42
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Minigonne al liceo Socrate di Roma, l’inutile massacro di una vicepreside

Alzata di scudi nazionale contro una frase citata in una versione “interpretata”, e intanto si aspettano sedie e banchi nuovi.

Roma – Niente minigonne al liceo Socrate di Roma. Ne hanno parlato i tg nazionali, ne è nato un caso politicosocialmediatico (leggi qui). Tutto un “carosello” di dichiarazioni in nome della libertà di essere se stessi nato da un assunto sbagliato: una frase mai detta, non nei termini esatti che hanno sollevato il vespaio di polemiche, eppure presa a simbolo per costruirci intorno teorie in difesa di una presunta libertà personale che non fa i conti con il contesto dove dovrebbe essere esercitata.

Il massacro mediatico della vice preside, anch’essa “donna” ma non per questo esclusa dagli strali femministi, nascerebbe dalla frase che ai professori maschi, vista la mancanza dei banchi e l’uso indiscriminato di minigonne, sarebbe “caduto l’occhio” e dunque per questo le minigonne sarebbero state vietate. Ma non è andata esattamente così. La vice preside infatti non ha detto che “sarebbe cascato l’occhio ai professori maschi”, ma che dal punto di vista dei docenti – la cattedra, appunto – alcune pose avrebbero potuto essere sconvenienti (parole testuali, a quanto risulta al faroonline.it “i docenti si distraggono”). Possiamo discutere se sia stata una frase concepita bene, ma non evidenzia tratti di sessismo o violenza.

A proposito, poi,  non è partito alcun divieto, ma solo il consiglio – da donna e da prof – di vestirsi in maniera più consona al luogo che ospita questo tratto di vita, la scuola appunto, in un momento in cui ci sono cuscini al posto di sedie e mancano i banchi.

Dove sarebbe lo scandalo? Chiedere di vestirsi in maniera consona a scuola – tenendo conto della situazione logistica contingente – non significa affatto limitare la libertà personale, ma anzi vuol dire avere rispetto per il luogo e la funzione che l’Istituzione Scuola dovrebbe avere. E’ un luogo nel quale si educa, anche alle regole. Dove si insegnano non solo i verbi o i limiti della fisica, ma anche quelli della convivenza e delle opportunità.

Chiedere, che so, ai ragazzi di non presentarsi a petto nudo nei giorni più caldi di fine anno scolastico non può essere preso a pretesto per dire che sia una limitazione della libertà. Libertà è prima di tutto rispetto, rispetto dell’altro, delle esigenze collettive, dei luoghi comunitari che si frequentano. Libertà non è fare ciò che si vuole, in un relativismo cosmico per cui ciò che è giusto per me deve essere accettato da tutti.

In questo caso specifico, poi, nessuno ha vietato nulla, ma solo consigliato che l’uso della minigonna, in un contesto inadatto, sarebbe stato sconveniente.

Fa specie poi la levata di scudi su questo tema – certo “di cassetta” e politicamente cavalcabile dai paladini della libertà assoluta – che ha visto scendere in piazza molti studenti (attenzione, molti ma non tutti, contrariamente a quanto si è andati narrando) per difendere centimetri di pelle visibili senza protestare con la stessa veemenza per la mancanza dei banchi, per i ritardi ancora oggi visibili rispetto all’informatizzazione del sistema scolastico, per l’impossibilità di mantenere la distanza di un metro tra studenti, per l’inadatta areazione. Tutte carenze non certo imputabili ai professori o alla scuola in sé, ma che avrebbero avuto bisogno – questo sì – della forza dirompente degli studenti e di una cassa di risonanza mediatica finalizzata a un cambio di passo indispensabile per la crescita dell’intero sistema.

Ma i problemi reali non sempre fanno notizia, quelli mediaticamente utili sì. E così, nonostante il fatto che più di una ragazza abbia scelto comunque di presentarsi con minigonna il giorno dopo il presunto divieto, senza per questo – ma era ovvio, visto che non c’era alcun divieto – averne conseguenze disciplinari, si è continuato a battere il tasto della libertà negata, della censura, del prof  con linguetta alla Fantozzi, tanto da arrivare a invocare la violenza di genere. La “storia” era ghiotta: una donna contro le donne, per arginare il maschio libidinoso.

Sul tema si sono proposti non solo gli studenti più intransigenti, ma anche commentatori più o meno qualificati, personaggi del web, opinionisti un tanto al chilo. Tutti a commentare aspramente una notizia costruita a uso e consumo della polemica.

Nessuno parla delle fatiche dei docenti per riuscire a dare dignità alla didattica in un periodo in cui l’unica preoccupazione è la sicurezza. Ma tant’è: ormai siamo abituati all’effimero, e la cosa più grave è che lo spalmiamo anche sopra temi fondamentali come il rispetto della libertà personale, dell’autodeterminazione, della crescita personale, della violenza di genere. Fino a soffocarne la reale dimensione, che è fatta di relazioni interpersonali, di rispetto anche dei “codici” altrui. Ma è meglio accanirsi su una donna mandata al macello per aver richiamato un concetto tutto sommato banale: siamo a scuola, e siamo qui per un obiettivo preciso. Concentriamoci su di esso.