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Il dramma di Mimmo: “Io, imprenditore che ha denunciato la mafia, messo in croce dallo Stato”

4 dicembre 2020 | 07:30
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Il dramma di Mimmo: “Io, imprenditore che ha denunciato la mafia, messo in croce dallo Stato”

Domenico D’Agati: “Le banche mi reputano pericoloso e lo Stato tace. Così si lasciano vincere i mafiosi”

Roma – Succede che un imprenditore si ribelli alla mafia, dopo anni di soprusi, denunciando i suoi aguzzini; la macchina della Giustizia si metta in moto ma, poco dopo, succede che lo stesso imprenditore si ritrovi abbandonato dalle banche, mettendo così definitivamente in ginocchio la sua azienda. Quello che provoca rabbia è che tutto questo succede in Italia, più precisamente in Sicilia, splendida isola martoriata e insanguinata da Cosa nostra. E succede ai giorni d’oggi, dove, per dirla con le parole di Papa Bergoglio, “si fa più attenzione al denaro che alla persona”.

Protagonista di questa triste vicenda è Domenico D’Agati, imprenditore siciliano che in passato ha sì piegato la testa davanti alle richieste dei picciotti che gli chiedevano il pizzo, ma poi ha trovato il coraggio di rialzarsi e dire “basta”. Ce lo racconta lui stesso in una lunga telefonata avvenuta pochi giorni fa. La sua azienda edilizia nasce nel ’92, un altro anno terribile per l’Italia, scossa dagli attentati di Capaci e via D’Amelio: “Fin dall’inizio ho cercato di mantenere una linea di comportamenti che mi tenessero lontano dall’ambiente mafioso, molto interessato all’edilizia, perché tra i settori più redditizi”. Ma i tentacoli penetrano nell’impresa e Domenico, in alcuni cantieri, è “costretto a subire l’onta dell’imposizione delle forniture o dei materiali. Ho subito anche l’onta dell’estorsione, che è quella che più ha aggravato sulla situazione finanziaria dell’impresa”.

Domenico paga: “L’ho fatto perché in quegli anni non c’erano le condizioni per denunciare. Non ci si fidava troppo dello Stato, complice anche quello che si sentiva dire in giro su quello che succedeva agli altri imprenditori che avevano denunciato”. Ma il peso inizia a diventare insostenibile: “Il fatturato dell’azienda continuava a salire anche grazie ai tanti cantieri che si iniziano ad aprire nelle varie lottizzazioni. Il problema però non sono solo i mafiosi che, insistentemente, ti vengono a chiedere il pizzo. Non ci sono solo loro per cui paghi e la questione si risolve. Anche negli uffici comunali, come accaduto a Misilmeri, ci sono dipendenti affiliati che, nonostante la costruzione fosse già a buon punto, iniziano a non rilasciare più autorizzazioni. Ci rifiutiamo di pagare la tangente e denunciamo“.

La situazione precipita: senza autorizzazioni i cantieri si fermano e a farne le spese è la ditta stessa. Anche nei cantieri di Palermo e di Villabate si ripete un copione simile. Da una parte la mafia, dall’altra dipendenti statali – di varie istituzioni – che chiedono tangenti per poter rilasciare tutte le concessioni e le autorizzazioni del caso. Un peso insostenibile per Domenico che torna a denunciare: “Le indagini fanno il loro corso e gli inquirenti, grazie anche ad altre testimonianze raccolte, accertano i fatti e si può finalmente andare a processo”. Ma il problema economico si allarga: l’azienda ha i cantieri bloccati, non solo perché mancano le autorizzazioni, ma anche perché “le banche, dopo le denunce, mi chiudono i conti, mi chiudono i mutui. Per loro sono ‘inaffidabile’ perché sono un imprenditore ‘pericoloso’ perché collaboro con la Giustizia”.

E lo Stato? “Tace. E’ completamente assente. E’ incredibile vedere come chi ricopre incarichi in alto non fanno altro che parlare di mafie ma poi, nel concreto non fa niente. Oggi la mia dignità di imprenditore e di padre di famiglia è stata uccisa dallo Stato che mi ha lasciato solo”. “L’antiracket si muove e fa qualcosa, ma tutto quello che c’è dietro sembra essere solo una facciata. Terminati i processi noi siamo rimasti soli. Sono anni che mando pec in Prefettura e non ho mail ricevuto risposta – aggiunge Domenico -. Abbiamo fatto provvedimenti al Tar e al commissario antiracket e a distanza di mesi stiamo ancora aspettando risposte. Un imprenditore che ha sempre lavorato e ha voglia di lavorare onestamente non vuole elargizioni gratuite. Siamo stanchi delle passerelle di politici che vengono in Sicilia e promettono. La Sicilia si è stancata delle promesse. Dallo Stato vogliamo garanzie per far riaprire verso noi imprenditori i rubinetti delle banche. Non ci servono più le parole o strette di mano, o pacche sulle spalle: vogliamo i fatti. Stiamo chiedendo cose che possono tranquillamente attuarsi da Roma, stando seduti sulle poltrone“.

Poltrone che iniziano a diventare incandescenti quando chi viene lasciato solo inizia a parlare male dello Stato: “Quando rimproveriamo allo Stato di non aver fatto nulla per ridare posizioni a un imprenditore che ha denunciato, allora veniamo attaccati dallo Stato – dice arrabbiato -. Quando in tv criticai il commissario antiracket, sono stato richiamato e mi è stato detto di non parlare male dello Stato”.

Il clou è poi vedere i mafiosi che chiedono il rito abbreviato e nel giro di poco ce li ritroviamo a passeggiare sotto casa nostra a ridere mentre noi restiamo soggetti vulnerabili“, conclude Domenico, che prima di riagganciare lancia due appelli. Il primo è per il Governo: “Basterebbe poco: che la legge 44 sia trasformata in una garanzia che riabiliti gli imprenditori. Non vogliamo altro”.

Il secondo è rivolto a un’altra Istituzione: “Faccio un invito ai dirigenti e al nuovo commissario Antiracket – la dottoressa Cagliostro, alla quale ho mandato gli auguri per l’incarico e ho chiesto di essere ricevuto – di ascoltare direttamente da chi è nel territorio tutto quello che non va e insieme trovare soluzioni migliori per gli imprenditori. Solo così lo Stato può affermare che il lavoro non lo dà la mafia. Spero tanto di essere ascoltato e ricevuto”.