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Settantasette anni dalle Fosse Ardeatine: una ferita sempre aperta foto

24 marzo 1944 – 24 marzo 2021. Il dolore e il raccapriccio di una strage che colpì una varietà di vittime innocenti con inaudita efferatezza e furia vendicativa

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Tra storia e memoria –  Camminare tra le ordinate file di lapidi grigie nel freddo di quella oscura grotta è qualcosa che colpisce ancora oggi dritto al cuore: le Fosse ardeatine sono una ferita insanabile per tutti noi per il dolore e il raccapriccio di una strage che colpì una varietà di vittime innocenti con inaudita efferatezza e furia vendicativa.

La storia

L’armistizio di Cassibile (di fatto una resa incondizionata agli Alleati) reso pubblico l’8 settembre del 1943 e la immediata successiva fuga del re Vittorio Emanuele III a Brindisi , avevano provocato il totale sbandamento delle forze armate e così le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS presenti in tutta la penisola riuscirono ad occupare tutti i centri nevralgici del territorio nell’Italia settentrionale e centrale, fino a Roma. Le truppe naziste entrarono a Roma e dopo i sanguinosi combattimenti, iniziati l’8 settembre e terminati con la Battaglia di Porta San Paolo del 10 settembre 1943 e costati la vita a circa settecento tra militari e civili italiani che si erano opposti armi in pugno agli occupanti tedeschi, il 12 assunsero il controllo effettivo della città, che era stata dichiarata “città aperta” dagli italiani , dopo i bombardamenti alleati di luglio e agosto .

Lo status di “città aperta” – cioè di una città ceduta, per accordo esplicito o tacito tra le parti belligeranti, alle forze nemiche senza combattimenti con lo scopo di evitarne la distruzione – avrebbe dovuto salvaguardare Roma e i suoi abitanti ma in realtà la città era sotto occupazione dei nazisti e dei fascisti, che operavano continui rastrellamenti e fucilazioni. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, , comandante supremo di tutte le forze tedesche in Italia, nominò capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell’ordine pubblico in città, l’ufficiale delle SS Herbert Kappler, che si renderà protagonista di gravissime violenze contro la popolazione civile, tra cui anche la razzia del ghetto ebraico e la successiva deportazione, il 16 ottobre 1943, di 1023 ebrei romani verso i campi di sterminio.

Fin dai primi giorni dell’occupazione nazista di Roma, si costituì nella capitale un movimento di Resistenza – caratterizzato da una grande varietà di riferimenti ideologici e politici – che agì fino al 4 giugno 1944, data della liberazione della città da parte degli Alleati e che coinvolse un gran numero di cittadini romani che si opposero alle forze tedesche e alle varie milizie fasciste e organizzarono numerosi attentati nel corso di quel tragico anno.

Il 23 marzo 1944 , poco prima delle 16, ebbe luogo in via Rasella , una strada nel cuore di Roma, un attacco condotto da partigiani dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica ) contro l’11ª compagnia del III battaglione del Reggimento “Bozen”, che provocò la morte di 32 militi delle SS e di due civili italiani, mentre un altro soldato morì il giorno successivo . Per l’attacco fu utilizzato un ordigno collocato in un carrettino per l’immondizia.

Nei convulsi momenti successivi all’esplosione, i partigiani autori dell’operazione riuscirono a fuggire. Appena la notizia dell’attacco cominciò a diffondersi, a Via Rasella arrivarono varie autorità nazifasciste di Roma: il questore Pietro Caruso, il generale Kurt Mälzer, comandante tedesco della piazza di Roma, e poco dopo il colonnello Kappler. Ebbe quindi inizio una concitata serie di telefonate per informare gli alti comandi tedeschi di quanto era accaduto e prese avvio un complesso processo decisionale che si concluse con la terribile decisione di procedere ad una feroce ed esemplare rappresaglia.

Il colonnello delle SS tedesco, Dollmann, presente sul posto, affermò che comunque sin da subito si parlò di una reazione esemplare e questa decisione venne confermata da Hitler, che, avvertito nel primo pomeriggio di quanto era accaduto, ordinò una rappresaglia devastante e senza precedenti che facesse “tremare il mondo”: la fucilazione di 50 ostaggi italiani per ogni soldato tedesco caduto, oltre alla distruzione dell’intero quartiere.

A partire dalle farneticanti disposizioni di Hitler, le più alte cariche militari tedesche cominciarono un confronto sul numero e sulla scelta delle vittime della rappresaglia , concludendo che fosse “sufficiente” fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella e che le vittime della rappresaglia avrebbero dovuto essere i cosiddetti Todeskandidaten (persone da eliminare), cioè i prigionieri detenuti a Roma già condannati a morte o all’ergastolo e quelli colpevoli di atti che avrebbero probabilmente portato a una loro condanna a morte. La decisione finale della rappresaglia venne presa solo in serata, quando Kesselring ordinò di procedere alla rappresaglia dieci contro uno con “esecuzione immediata”.

Da quel momento la principale preoccupazione delle autorità tedesche fu la necessità di eseguire la rappresaglia con la massima rapidità e segretezza per evitare la reazione della popolazione e la difficoltà di individuare nel poco tempo a disposizione l’elevato numero di ostaggi da fucilare richiesto dalla proporzione stabilita.

La lista delle vittime

A compilare la lunga lista delle 320 vittime fu il comandante SS Herbert Kappler che, dopo consultazioni con i suoi superiori, e consapevole della difficoltà di individuare in brevissimo tempo un numero così elevato di persone, attivò i suoi ufficiali e diede inizio alla frenetica individuazione dei nomi da inserire nell’elenco. Le donne vennero subito escluse dalla rappresaglia. Il lavoro degli ufficiali della sezione della Gestapo di Roma, diretto personalmente da Kappler e Priebke, durò tutta la notte tra il 23 e 24 marzo e proseguì in modo sempre più forsennato con il passare delle ore.

Alla predisposizione della lista collaborarono anche autorità italiane come il questore Caruso e Pietro Koch, capo della squadra speciale della polizia fascista di Roma. Secondo le disposizioni impartite, la lista comprendeva inizialmente solo prigionieri già condannati a morte o all’ergastolo e quelli colpevoli di atti che avrebbero probabilmente portato a una condanna a morte detenuti a via Tasso e a Regina Coeli, dunque antifascisti e membri della Resistenza. Non essendo, però, sufficiente il numero di questi prigionieri a raggiungere i 320 uomini da uccidere, vennero inclusi nella lista anche 75 ebrei in attesa di essere deportati, persone rastrellate casualmente per le strade di Roma, detenuti per reati comuni e uomini arrestati in attesa di giudizio per reati vari. La lista venne addirittura completata quando già l’esecuzione era iniziata prelevando alcuni prigionieri a caso da Regina Coeli , tra cui anche dieci detenuti in procinto di essere rilasciati.

L’esecuzione

L’esecuzione della rappresaglia venne assegnata direttamente al colonnello Kappler che dispose che tutti i componenti del reparto incaricato dell’azione, compresi gli ufficiali, avrebbero dovuto partecipare alle esecuzioni come “necessario atto simbolico”. Kappler stabilì che le uccisioni fossero dirette dal capitano Schütz e che Priebke controllasse la lista per verificare l’avvenuto completamento delle uccisioni che dovevano durare “non più di un minuto per ogni uomo”.

Delle cave abbandonate di pozzolana sulla Via Ardeatina furono il luogo scelto per l ’esecuzione. Inizialmente l’ordine di esecuzione riguardava 320 persone, in quanto a morire nell’attentato erano stati 32 tedeschi, ma in seguito alla morte di un altro militare tedesco ferito a via Rasella avvenuta il giorno successivo all’attentato, Kappler arbitrariamente decise di aggiungere alla lista altre dieci persone per “rispettare” il rapporto di 1 a 10 fissato. In realtà nella frenesia del rastrellamento furono, per errore, condotti alle cave cinque uomini in più che furono uccisi perché, se fossero tornati liberi, avrebbero potuto raccontare quello di cui erano stati testimoni oculari.

Le fucilazioni ebbero inizio alle 15,30 del 24 marzo, 23 ore dopo l’attentato di Via Rasella, e si conclusero a sera inoltrata . I prigionieri, suddivisi in gruppi di cinque, vennero condotti nelle gallerie illuminate da soldati tedeschi muniti di torce elettriche; all’entrata del luogo di esecuzione Priebke richiedeva il nome al condannato e controllava la lista; quindi le vittime venivano fatte inginocchiare e gli esecutori sparavano un colpo di pistola alla nuca degli ostaggi. In totale furono effettuati 67 turni di esecuzioni e anche Kappler e Priebke parteciparono all’eliminazione.

I tedeschi, dopo aver ucciso le vittime, fecero esplodere le cave in modo da occultare ciò che restava dei corpi martoriati. In questo modo si voleva mantenere l’assoluta segretezza sull’eccidio ma le esplosioni finali furono udite da alcuni religiosi salesiani ,guide delle vicine catacombe, che nella notte entrarono nelle cave, trovandosi di fronte ad uno spettacolo orrendo: all’interno i corpi delle vittime erano rimasti ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo.

Soltanto il giorno dopo, a mezzogiorno del 25 marzo, la notizia dell’esecuzione venne resa nota attraverso le pagine del quotidiano “Il Messaggero” con un comunicato la cui terribile conclusione recita: “ Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati [il riferimento è all’attacco partigiano in via Rasella]…., perciò, ha ordinato che per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.

Il significato dell’atroce e definitiva frase “L’ordine è già stato eseguito” venne ribadito durante il processo del 1946 da Kesserling e da altri ufficiali , chiarendo come non fu attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, né venne emesso alcun avvertimento pubblico riguardo alla proporzione dieci contro uno e, infine, che non fu presentata alcuna richiesta ai partigiani di consegnarsi per evitare l’eccidio.

Vittime

I 335 assassinati alle Fosse Ardeatine erano tutti maschi, di età variabile dai 15 anni di Michele Di Veroli ai 74 di Mosè Di Consiglio, ben 27 avevano meno di vent’anni, 113 meno di trent’anni. Erano stati tutti arrestati a Roma, ma poco più della metà di loro (174 persone) erano nati a Roma o nella provincia. Molti di loro erano appartenenti a formazioni politiche antifasciste e militanti nella Resistenza; vi erano poi 75 appartenenti alla comunità ebraica romana, persone a disposizione della Questura romana fermate per motivi di pubblica sicurezza, altre arrestate nei pressi di via Rasella, una persona già assolta dal Tribunale militare tedesco ed otto persone tuttora non identificate. Tra i martiri un unico sacerdote: Don Pietro Pappagallo.

Solo dopo la liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, fu possibile esumare le salme dei caduti ed accertarne l’identità. Questa pietosa restituzione di un nome, e con esso della memoria, ai martiri fu ottenuta dietro insistenza delle famiglie, fu coordinata dal professor Attilio Ascarelli ed iniziò alla fine di luglio del 1944, consentendo il riconoscimento di 327 delle 335 vittime.

I colpevoli

Alcuni degli italiani che si erano prodigati per fornire ai nazisti i prigionieri da massacrare furono processati ed uccisi nell’immediatezza della Liberazione, altri sono riusciti ad infiltrarsi nelle pieghe del nuovo Stato democratico sottraendosi così alla giustizia. Per quanto riguarda i nazisti, un tacito accordo tra autorità tedesche e italiane, entrambe infiltrate di ex nazisti ed ex fascisti, fece sì che molti dei responsabili delle Fosse Ardeatine risultassero irreperibili.

Il comandante delle SS Herbert Kappler fu processato nel dopoguerra: un tribunale italiano lo condannò all’ ergastolo, per le 15 vittime giustiziate in più non comprese nell’ordine di rappresaglia che doveva eseguire. Dopo 30 anni di carcere, aiutato dalla moglie, Kappler riuscì ad evadere il 15 agosto 1977 (era rinchiuso nel carcere militare del Celio a Roma) e raggiunse la Germania dove morì nel 1978.

Anche l’ex capitano delle SS Erich Priebke, dopo essere fuggito in Argentina nel dopoguerra , grazie alla Ratline, fu scoperto a Bariloche nel 1994. Successivamente estradato e processato in Italia, fu condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Scontò la condanna agli arresti domiciliari a causa dell’età avanzata a e morì a Roma nel 2013, a 101 anni.

Albert Kesserling

Nel febbraio 1947 a Mestre ebbe luogo il processo contro Kesselring, gestito da un tribunale militare britannico, che durò 57 giorni. Uno dei capi di imputazione era proprio il “coinvolgimento nell’uccisione, per rappresaglia, di circa 335 cittadini italiani”. Fu condannato a morte mediante fucilazione nel maggio del ‘47 ma subito, nel giugno successivo, la condanna fu commutata nel carcere a vita. Già nel 1948 la pena gli fu ridotta a ventuno anni di carcere e nel 1952 Kesselring fu scarcerato e fece ritorno in Germania dove morì nel ’60. Kesselring , dopo la sua liberazione, dichiarò che non aveva nulla da rimproverarsi e che anzi gli italiani gli avrebbero dovuto dedicare un monumento per il suo operato sul suolo italiano nella salvaguardia delle città d’arte come Roma e Firenze.

In diretta risposta a questa dichiarazione di inaudita gravità, l’ex partigiano e deputato socialdemocratico Piero Calamandrei, membro della Costituente, nel 1952 scrisse un memorabile e struggente componimento, noto come “Lapide ad ignominia”, che è uno dei brani più intensi della rievocazione della nostra Resistenza e dell’impegno di tanti uomini e donne per la costruzione della nostra Repubblica.

Lo avrai camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama ora e sempre
Resistenza

Anche quest’anno , pur con le limitazioni imposte dall’ attuale emergenza sanitaria, molte saranno le iniziative a ricordo di questo tragico eccidio. Segnalo tra le altre quella promossa dall’Aned di Roma.

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