Strage di Capaci, trent’anni dopo: il coraggio di cambiare

23 maggio 2022 | 00:01
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“Loro non cambiano”. Quelle parole, gridate tra le lacrime in un’infuocata giornata di maggio di trent’anni fa, passate spesso in sordina, devono essere per noi oggi un monito per un futuro migliore

“Ma loro non cambiano”. Se c’è una frase che ben sintetizza la storia della mafia è proprio quella pronuncia dalla vedova Schifani durante i funerali di suo marito Vito, morto nella strage di Capaci: “Ma loro non cambiano”.

Attenzione, non si vuole dire che la mafia non si evolve, che non muta nel tempo. La mafia, per definizione, si adegua a tempi e società. Rinnova i modi di fare, di porsi. Anche i modi di uccidere. Ma non cambia nella sua identità, nel suo essere personificazione di un male che, votandosi al potere, schiaccia e stritola con i suoi tentacoli chi ritiene un ostacolo. Giovanni Falcone lo era. E farlo saltare in aria con cinquecento chili di tritolo, a quelli di Cosa nostra, sembrava il giusto modo per farlo capire a lui e a chi, come Borsellino, stava scavando in quel marcio.

Un marcio che, a distanza di trent’anni, non è sparito. “Loro non cambiano”. Quelle parole, gridate tra le lacrime nella chiesa di San Domenico, in un’infuocata giornata di maggio, passate spesso in sordina, devono essere per noi oggi un monito per un futuro migliore.

“Ma loro non cambiano”. E allora cambiamo noi.

Cambiamo il nostro modo di pensare e di parlare della mafia. Cambiamo il nostro atteggiamento davanti ai fatti di cronaca che, quasi quotidianamente, riempiono le pagine dei giornali i servizi dei tg. Non viviamolo più in modo passivo, con commenti del tipo: “Sai che novità”.

“Ma loro non cambiano”. Cambiamo noi il nostro modo di parlare di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di don Pino Puglisi, di Piersanti Mattarella, di Rosario Livatino e di tutti quelli che hanno pagato col sangue il loro sogno di un mondo giusto.

“Ma loro non cambiano”. Cambiamo il nostro futuro, raccontando ai ragazzi che un’alternativa c’è sempre. Che un mondo diverso è possibile. È desolante sentire giovani che confondono la strage di Capaci con quella di via D’Amelio. Non possiamo permetterlo. Lo dobbiamo a Falcone, a Borsellino, e ancora di più a Vito, a Rocco e Antonio, servitori anch’essi di uno Stato, spesso assente, che non è stato capace di proteggere i suoi figli.

“Qui non c’è amore”. È l’ultima, lapidaria frase, che in quel maggio di trent’anni fa, la vedova Schifani pronuncia durante il rito funebre del marito. “Qui non c’è amore”. E come potrebbe esserci amore se gli uomini d’onore seminano morte e sangue? Come può esserci amore se la vita umana viene disprezzata a tal punto? Come può esserci amore se Bibbie e santini, immagini sacre e segni di croce vengono usati per emanare sentenze di morte? “Loro non cambiano” perché “qui non c’è amore”. Cambiamo noi, allora, insegnando ai nostri ragazzi, ai nostri amici, anche ai nostri genitori, che la nostra Italia oggi ha “bisogno di uomini e di donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione”.

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