Tra lui e il Nobel per la Pace, oggi, c’è l’Ucraina. Se riuscirà a fermare la guerra senza regalarla a Putin, potrebbe davvero ottenere ciò che sogna da sempre
Washington, 2 maggio 2025 – C’è un fattore che spesso viene colpevolmente trascurato quando si parla di Donald Trump: quello che dice lo pensa sul serio, e generalmente dà seguito alle sue azioni. Nonostante i suoi modi possano sembrare da reality show, conditi da meeting di gabinetto a telecamere accese, o incontri pubblici con i vari leader mondiali proiettati sui social media come fossero film, Trump è davvero convinto della potenza dei suoi messaggi e, quindi, della propria. Un culto della personalità come non si vedeva dal ‘900. Paradossalmente, però, tutto ciò potrebbe non essere completamente un male. Già perché, per lo stesso motivo, siamo obbligati a credere che sia serio anche quando dice di meritare il Nobel per la Pace, obiettivo a cui aspira da una decina d’anni. Può sembrare paradossale, invece è perfettamente coerente rispetto al personaggio Trump. Com’è possibile? Andiamo per ordine.
“Mi piacerebbe fare il Papa, sarei la mia prima scelta”
È per questo che un paio di giorni fa, a domanda su chi vorrebbe come nuovo Papa dopo la morte di Francesco, ha risposto: “Mi piacerebbe fare il Papa, sarei la mia prima scelta”. Non scherzava affatto, vorrebbe farlo davvero. Semplicemente non può farlo, ma se ne avesse la possibilità, avrebbe probabilmente già iniziato una sottospecie di “campagna elettorale”, magari giurando che Dio sta dalla sua parte (cosa che ha detto dopo essere scampato all’attentato in Pennsylvania la scorsa estate). Un altro esempio? Trump è davvero convinto che qualcuno gli abbia rubato la rielezione del 2020 a favore di Joe Biden, una convinzione che spinse numerosi sostenitori MAGA, che per il tycoon si getterebbero nel fuoco (o andrebbero in galera, come successo, prima di ricevere la grazia proprio da Trump poco dopo il suo secondo insediamento), ad assaltare il Campidoglio. Non è propaganda, o almeno non solo: è ciò che pensa davvero. Guai a non credere che sia serio, anzi serissimo, quando si esprime.
Al contrario, è questa la sua più grande dote comunicativa ed anche politica: con i suoi modi esagerati, stravaganti e a volte impossibili da credere, a tratti da despota, dà modo agli altri di non prenderlo sul serio, di sottovalutarlo, nonostante la storia abbia già dimostrato quanto farlo sia miopia.
Deportazioni e dazi
Trump sta facendo esattamente quello che aveva promesso di fare in campagna elettorale: maxi-deportazioni e dazi a tutto il mondo. L’afflusso di migranti si è arenato, centinaia di migliaia di persone sono state rispedite indietro o nelle carceri di El Salvador, sfidando anche la Corte Suprema. E le tariffe sono imposte come arma di ricatto, e già hanno raccolto i frutti: vedasi Canada, Messico e India. Crudele, spietato, magari antidemocratico? Forse, ma ha fatto esattamente ciò per cui la maggioranza degli americani ha deciso di riportarlo alla Casa Bianca. Ciò ovviamente non significa che un Presidente possa diventare un autocrate per via del consenso popolare, ma aiuta a capire il sentiment della maggioranza degli americani, i quali talmente non potevano vedere più i Democratici che hanno preferito rimandarlo alla Casa Bianca.
Trump e l’immagine del portatore di pace
Trump si è costruito l’immagine di portatore di pace, come fosse un’autorità divina. Lo ha sempre fatto, anche durante il suo primo mandato. Nonostante sembri un paradosso, sotto il tycoon gli Stati Uniti non hanno scatenato nessuna guerra d’invasione, a differenza di quanto fatto dai predecessori Bush (Iraq, Afghanistan) ed Obama (Libia, Siria), ed anzi proprio Trump ha chiuso quella ventennale in Afghanistan. E sotto la sua presidenza, grandi focolai di guerra in giro per il mondo non sono scoppiati, a differenza di quanto fatto da Bush (Iraq, Afghanistan) o Obama (Libia, Siria). Ha mantenuto una presenza militare costante in Medio Oriente e non ha mai disdegnato attacchi mirati (come l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani). Ma di guerre su larga scala non c’è nemmeno l’ombra. Il mantra della sua retorica di pacifista si concretizza nella firma degli Accordi di Abramo: una serie di accordi per la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e vari Paesi arabi, mediati dagli Stati Uniti. Motivo per cui venne candidato al Nobel per la Pace all’epoca, motivo per cui ancora dice di meritarlo. E nonostante non l’ottenne, quel sogno non è mai svanito.
Tra Trump e il Nobel per la Pace, c’è l’Ucraina
Ed ecco che, allora, si arriva al nocciolo. Durante la campagna elettorale, Trump aveva promesso di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore, o addirittura prima del suo insediamento. È stato così? No, ovviamente. I bombardamenti russi continuano, ed anzi aumentano. Alla faccia della tregua di Pasqua (violata da Putin) o del cessate il fuoco di tre giorni previsto per la settimana del 9 maggio, giorno in cui in Russia si ricorderà la vittoria nella Seconda guerra mondiale. Ma nonostante ciò, c’è da credere che Trump realmente pensasse che bastasse il suo nome a fermare tutto, talmente è alto il suo ego. Motivo per cui, ora come ora, è completamente affranto e deluso da Putin, che nella sua ottica lo ha tradito. Ed ecco perché, da settimane, la Casa Bianca ha completamente cambiato retorica sull’autocrate russo: minacce di sanzioni, accuse di “prendere in giro” Trump e di voler sabotare la pace. Tutto ciò ha causato una posizione più morbida nei confronti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, da cui ha ottenuto anche l’accesso alle terre rare ucraine, un accordo che prevede un ricco fondo per la ricostruzione.
C’è un punto, poi, che ai vertici del Partito Democratico americano proprio non va giù: è quasi insopportabile — per qualcuno, umiliante — che a far partire i negoziati tra Russia e Ucraina sia stato proprio Donald Trump. Già, perché che piaccia o meno, le trattative sono iniziate sotto la sua presidenza. Incontri a ripetizione con Zelensky, diplomazie al lavoro anche nei canali ufficiali, bozze di accordo circolate in via nemmeno troppo riservata. Sono negoziati, appunto, e per ottenere qualcosa bisogna saper recitare il copione. Trump mira a 100, sapendo che realisticamente otterrà 70 — o anche meno. Fa parte del suo metodo: puntare alla luna per atterrare su una vetta comunque rilevante.
C’è poi un ultimo elemento cruciale. Per Trump è fondamentale che passi la narrativa del portatore di pace. È l’immagine a cui tiene di più: l’unico leader in grado di fermare la guerra, risolvere il caos e rimettere in riga il mondo. E al tempo stesso, non può permettere che i libri di storia lo raccontino come l’uomo che ha consegnato l’Ucraina al nemico storico. Per un orgoglioso come lui, sarebbe intollerabile. Non solo perché vuole uscirne da vincitore, ma perché — in fondo — nemmeno Putin può permettersi di dettare le regole al Donald Trump presidente degli Stati Uniti.
Paradossalmente, proprio questo carattere impetuoso, egocentrico e refrattario a ogni imposizione potrebbe diventare la migliore garanzia per Kiev. Trump vuole la pace, ma vuole che abbia il suo nome inciso sopra. E per ottenerla, ha bisogno che il finale somigli più a una vittoria diplomatica che a una resa.
Tra lui e il Nobel per la Pace, oggi, c’è l’Ucraina. La questione è tutta lì: se riuscirà a portarla a un accordo senza regalarla a Putin, allora — forse — potrà anche riscrivere l’ultima pagina della sua storia politica, ottenendo ciò che vuole da sempre. (Foto: X @whitehouse)
Lorenzo Contigliozzi – corrispondente dagli Stati Uniti.
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