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Jerome Powell, il banchiere più potente del mondo, è il vero nemico di Trump

12 agosto 2025 | 23:53
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Jerome Powell, il banchiere più potente del mondo, è il vero nemico di Trump

Trump lo nominò alla guida della Federal Reserve nel 2018, dandogli in mano tutta la liquidità globale, ma ora lo vuole fuori. Il motivo? Powell non abbassa i tassi d’interesse: metterebbe a rischio la stabilità economica e la credibilità della banca centrale.

Washington, 12 agosto 2025 – Non passa giorno in cui Trump non ne chieda le dimissioni. Ora addirittura minaccia di denunciarlo a causa del suo “lavoro orribile”. Se potesse, lo licenzierebbe: ne avrebbe formalmente la possibilità, ma in quel caso paralizzerebbe la politica monetaria e perderebbe la causa, dato che non si può cacciare il banchiere più potente del mondo solo perché non esegue i desiderata della Casa Bianca. Jerome Powell, il capo della Federal Reserve (la Banca Centrale degli Stati Uniti), è il vero nemico di Trump, anche perché è l’unica figura di spicco mondiale a non essersi mai piegata di fronte alle pressioni del Presidente. Il motivo? Powell – ironia della sorte, scelto proprio da Trump nel 2018 come uomo di fiducia, un po’ come ingaggiare un arbitro e poi lamentarsi perché applica il regolamento – rifiuta di abbassare i tassi d’interesse nonostante le continue sollecitazioni, convinto che una mossa del genere, in questa fase, metterebbe a rischio la stabilità economica e la credibilità della banca centrale.

Una resistenza che manda Trump su tutte le furie, tanto da brandire perfino l’arma delle tariffe per forzare la mano della Fed. Ma finora, senza successo: Powell non cede e, con il suo mandato in scadenza solo nel 2026, il Presidente dovrà ancora fare i conti con la sua stessa scelta.

Powell ha in mano la liquidità di tutto il mondo

Innanzitutto, occorre spiegare bene il contesto e perchè la guerra di Trump c0ntro Powell c’interessa tutti da vicino: il presidente della Federal Reserve è una delle figure economiche più influenti al mondo perché guida la banca centrale della prima economia globale e della valuta di riserva internazionale per eccellenza, il dollaro. Di fatto, ha in mano l’intera liquidità mondiale. Le decisioni della Fed influenzano direttamente crescita, inflazione e tassi di cambio non solo negli Stati Uniti ma dappertutto: quando la Fed alza o abbassa i tassi, cambia il costo del denaro per governi, imprese e cittadini in mezzo mondo. Oltre il 60% delle riserve valutarie mondiali è in dollari e le principali materie prime, come petrolio, gas, grano e metalli, sono quasi tutte prezzate in questa valuta.

Una decisione della Fed può quindi far salire o scendere il valore del dollaro, impattando inflazione e commercio internazionale ovunque. I mercati obbligazionari, azionari e delle materie prime reagiscono immediatamente alle parole del presidente della Fed (non deve firmare nulla, basta che apra bocca), e anche una sola sfumatura in un discorso può muovere miliardi di dollari in pochi secondi. I Paesi emergenti con debito in dollari sono particolarmente sensibili: se la Fed alza i tassi, il loro debito diventa più costoso da pagare.

Possiamo definire la Fed come la “banca centrale delle banche centrali”: durante crisi globali, come quella del 2008 o la pandemia di Covid, ha fornito linee di credito in dollari alle altre banche centrali per stabilizzare il sistema, diventando un punto di riferimento anche per la Banca Centrale Europea, la Bank of Japan e la Bank of England. Sul piano politico e diplomatico, il presidente della Fed è formalmente indipendente dalla Casa Bianca, ma ogni sua decisione può rafforzare o ostacolare l’agenda di un governo statunitense. Nei summit internazionali, come G7, G20 e FMI, è ascoltato come uno dei leader economici più potenti al mondo e, in certi momenti di crisi, può avere più influenza immediata dell’intero Congresso.

Perchè è il vero nemico di Trump, forse l’unico

Trump è furioso perché, nonostante le tariffe imposte e le pressioni quotidiane, Powell continua a dire no a un taglio dei tassi. Il presidente americano si aspettava che l’aumento dei dazi – con il conseguente rallentamento degli scambi e la pressione sui mercati – spingesse la Fed a intervenire per stimolare l’economia, rendendo il denaro più a buon mercato. Ma Powell non ci sta. La sua linea è chiara: con un’inflazione ancora sopra il 2% e un mercato del lavoro che regge, abbassare i tassi ora significherebbe rischiare di alimentare nuovi rialzi dei prezzi e compromettere la credibilità della banca centrale. Al momento, il tasso ufficiale della Federal Reserve è fissato in un intervallo compreso tra il 4,25% e il 4,50%, un livello che Powell considera ancora necessario per riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2%. Per il numero uno della Fed, la politica monetaria non può essere dettata dall’agenda politica di un presidente.

Al momento, tutto fa pensare che Powell non cederà facilmente — e se lo farà, sarà solo quando i dati macroeconomici lo giustificheranno, non per volontà politica di Trump. Ci sono tre ottime ragioni per dirlo: la prima è la sua reputazione personale e istituzionale Powell ha costruito la sua immagine sulla difesa dell’indipendenza della Fed. Se cedesse ora alle pressioni presidenziali, lascerebbe un precedente pesantissimo: il messaggio ai mercati sarebbe che la politica monetaria USA si piega agli umori della Casa Bianca. Poi c’è Inflazione ancora sopra target: attualmente al ~2,7%,  il rischio è che i dazi di Trump la spingano di nuovo in alto, un taglio dei tassi ora sarebbe percepito come imprudente. Powell preferirà aspettare segnali solidi di discesa verso il 2%. Ultimo, ma non per importanza, è il tempismo politico: la Fed è ipersensibile al rischio di sembrare influenzata dalle elezioni o dall’amministrazione di turno, e Powell farà di tutto per non dare l’impressione di assecondarlo in tempi sospetti.

Trump vuole ripagare il debito con i soldi europei

Ufficialmente, quindi, i dazi servono a proteggere l’industria americana e riequilibrare la bilancia commerciale, ma nella sostanza hanno un obiettivo molto preciso: trasferire parte del peso del debito statunitense sugli alleati, in particolare sull’Europa, facendo pagare di più per esportare verso gli Stati Uniti. I proventi e la leva negoziale di queste tariffe, nelle intenzioni della Casa Bianca, dovrebbero contribuire a ridurre il disavanzo e allo stesso tempo mettere pressione alla Fed affinché abbassi i tassi d’interesse, stimolando l’economia interna e sostenendo il consenso politico. Lo abbiamo analizzato ancor più approfonditamente in questo articolo. Powell, però, fin’adesso ha risposto picche. Con buona pace di Trump. (Foto: whitehouse.gov)