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11 settembre 2001: la cultura dell’emergenza permanente

11 settembre 2025 | 07:00
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11 settembre 2001: la cultura dell’emergenza permanente

L’attacco alle Twin Towers non ha solo provocato morte e distruzione: ha inaugurato un’epoca in cui la paura è diventata leva politica ed economica, in grado di plasmare leggi e mercati. Le scorie ce le portiamo ancora dietro

New York, 10 settembre 2025 – Chiunque abbia vissuto l’11 settembre ricorda esattamente cosa stava facendo tra le 14.46 e le 15.03 ora italiana, quando dall’altra parte dell’Atlantico, alle 8.46 e alle 9.03 di New York, due aerei dirottati da Al Qaeda si schiantarono contro le Twin Towers. Per la prima volta l’America, la fortezza dell’Occidente, veniva colpita: in quell’ora drammatica morirono quasi 3.000 persone. Alcuni, pur di sfuggire alle fiamme, scelsero di lanciarsi nel vuoto: immagini che sono rimaste scolpite come simbolo di disperazione e di coraggio estremo. Una morte atroce, ma forse meno dolorosa. Ventiquattro anni dopo, metà delle vittime resta ancora senza nome. E come spesso accade nelle tragedie collettive, ci fu anche chi seppe trasformare la paura in business o questioni di potere.

L’emergenza permanente

Dopo il 2001 nacque un’enorme economia della paura. Vigilanza privata, assicurazioni, architetture blindate, consulenze anti-terrorismo: un settore miliardario che da allora non ha smesso di crescere. Le Torri caddero, ma sorsero aziende che costruirono interi imperi economici sulla gestione del rischio. Oggi quella stessa logica si è evoluta in cybersicurezza, intelligenza artificiale e sorveglianza biometrica: il mercato della paura ha cambiato pelle, ma non si è mai fermato.

Sul piano politico, l’11 settembre inaugurò un’epoca nuova. George W. Bush parlò al mondo di “war on terror” e in poche settimane gli Stati Uniti approvarono il Patriot Act, la legge che ampliò in modo senza precedenti i poteri di sorveglianza dello Stato. In Europa, misure analoghe segnarono la vita quotidiana: controlli più stringenti negli aeroporti e nei trasporti, telecamere ovunque, banche dati condivise tra Stati. Quella promessa di sicurezza ebbe un costo altissimo: libertà civili ridotte, cittadini schedati, comunità musulmane stigmatizzate. Non si trattò solo di combattere il terrorismo, ma di ridisegnare i confini del rapporto tra Stato e cittadino.

Ventiquattro anni dopo, il segno lasciato da quell’11 settembre è ancora visibile soprattutto nel modo in cui governi e istituzioni hanno imparato a gestire le crisi. Dalla finanza alla pandemia, dal clima alla guerra in Ucraina, l’Occidente vive ormai in una condizione di emergenza permanente. Ogni shock diventa la giustificazione per nuove misure straordinarie che spesso finiscono per restare.  In nome della sicurezza, abbiamo accettato controlli sempre più invasivi e un’economia intera costruita sulla paura. La domanda, 24anni dopo, resta aperta: quanto abbiamo davvero guadagnato?