Storie della cucina italiana: il baccalà alla livornese
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Storie della cucina italiana: il baccalà alla livornese

26 maggio 2021 | 16:1


La cucina livornese è multiculturale e internazionale, dove le pietanze richiamano le origini dei suoi abitanti.


C’era una volta una città, una città che si stava costruendo. Un luogo di mare, affacciato sul mondo grazie al suo porto. Un luogo che si chiama Livorno e che è stato una delle realtà commerciali e marinare più ricche sul panorama internazionale. Livorno città cacciucco di genti arrivate grazie alle cosiddette leggi livornine emanate dal Granduca Ferdinando I de’ Medici nel 1593, leggi che invitavano persone di qualsiasi razza, religione, estrazione sociale e nazionalità. Livorno è stata questo e lo si respira ancora oggi. La cucina livornese è multiculturale e internazionale, dove le pietanze richiamano le origini dei suoi abitanti.

In questo articolo racconteremo una storia italiana: quella del baccalà alla livornese, molto più di una semplice ricetta culinaria. Una storia con protagonista pochi, peculiari ingredienti.

Baccalà o stoccafisso?

Prima del cacciucco la pietanza che a Livorno ha unito i diversi ceti, dallo scaricatore al console, dalla gente del popolo al mercante, è il baccalà. Un attimo. Baccalà o stoccafisso? La materia prima, il merluzzo, è comune; la differenza sta nel metodo di conservazione. Lo stoccafisso viene essiccato al sole per almeno tre mesi: il termine infatti deriva dal norvegese “stokkfisk” o dall’olandese “stocvisch” che significano “pesce seccato sui bastoni”. La sua produzione è legata alle condizioni climatiche e va da febbraio a giugno, periodo in cui nel Nord Europa c’è una situazione di equilibrio tra sole e vento artico; c’è poi bisogno di un periodo di riposo di due mesi.

Il baccalà viene conservato sotto sale e si può produrre tutto l’anno. L’etimologia della parola è tedesca, “bakkel-jau” e significa “pesce salato”; deriva a sua volta da “bakel-jau” che vuol dire “duro come una corda”. Entrambi sono stati portati in Italia dai marinai genovesi e veneziani, che lo apprezzavano per il sapore e la facilità di conservazione, commerciandolo con i porti olandesi, tedeschi, scandinavi.

Lo stoccafisso arriva a Livorno nel Settecento, grazie al regolare traffico con Bergen, capitale norvegese del pesce secco, mentre il baccalà entra in commercio solo a partire dal 1850. Meno secco ma più salato dello stoccafisso, il baccalà va tenuto nell’acqua corrente almeno per dodici ore, per essere poi pulito e infine cucinato. La prima ricetta del baccalà alla livornese, quella originale, vuole lo stoccafisso, che necessita anche lui di ammollo. E allora perché si usa il termine baccalà nel nome della preparazione? Perché l’italiano è una lingua musicale e preferisce il suono della parola baccalà.

Pomodoro protagonista

Ma il vero protagonista della nostra ricetta è il pomodoro, ingrediente tipico della cucina toscana e di quella labronica in particolare. Il risultato si ottiene non soltanto mettendo a cuocere l’ortaggio, ma soprattutto cucinandolo a lungo: solo così si possono ottenere risultati memorabili.

Aldo Santini, nel libro La cucina livornese, racconta un aneddoto simpatico: Giuseppe Garibaldi era un amante del baccalà alla livornese e la storia vuole che partisse per Caprera con un sacchetto di sementi e una scorta di stoccafisso. Tra i semi contenuti nel sacchetto pare ci fosse anche il pomodoro. Chissà che quei pomodori non siano stati usati per il baccalà alla livornese.