Scomunica ai mafiosi, la promessa di mons. Pennisi: “Colmeremo questo vuoto normativo”

22 maggio 2021 | 07:45
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Scomunica ai mafiosi, la promessa di mons. Pennisi: “Colmeremo questo vuoto normativo”

L’arcivescovo di Monreale, in prima linea nella lotta alla mafia: “Ci vorrà del tempo ma colmeremo questo vuoto normativo a livello universale”

Città del Vaticano – Che religiosità cattolica e mafia fosse un ossimoro era chiaro. Come altrettanto chiara è la linea della Santa Sede nei confronti di chi, pur definendosi cristiano, commette orribili azioni criminali. Quel “convertitevi” implorato da Giovanni Paolo II nel 1993, nel cuore della Valle dei Templi di Agrigento, scosse le coscienze di tutti, anche degli stessi mafiosi, che poche settimane più tardi misero una bomba davanti i cancelli di San Giovanni in Laterano, la cattedra del Papa. Dopo 21 anni, Papa Francesco, nella piana di Sibari, lancia un anatema più forte e dice chiaramente che i mafiosi “sono scomunicati”.

Parole di un certo peso che, però, non hanno ancora trovato applicazione formale nel Diritto ecclesiastico. Da qui la creazione di una task force, nata in Vaticano da pochi giorni (leggi qui), che ha proprio il compito di lavorare alla “scomunica di tutte mafie”, “con l’obiettivo di approfondire il tema, collaborare con i Vescovi del mondo, promuovere e sostenere iniziative”. Del team fa parte anche mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, da tempo in prima linea nella lotta alla mafia, che ci ha spiegato tempi e modalità di lavoro della nuova commissione.

Eccellenza, dopo le parole si passa ai fatti. A distanza di 6 anni dalla “scomunica” pronunciata da Papa Francesco nella piana di Sibari ora si procede alla “creazione” di una scomunica vera e propria: perché aspettare 6 anni?

Nelle parole pronunciate da Papa Francesco a Sibari il 21 giugno 2014 c’ è stata l’esplicita condanna dei comportamenti mafiosi, che oltre ad essere peccati sono anche dei delitti dal punto di vista canonico, che oltre ad avere un grave risvolto sociale, sono contro la religione come il delitto di idolatria e di apostasia, che sono veri e propri atti di rifiuto della fede cristiana, sanzionati dal can. 1364 §1 con la scomunica automatica «latae sententiae».

Il 15 giugno del 2017 si tenne in Vaticano, organizzato dal nuovo Dicastero per il servizio alla Sviluppo Umano integrale, il primo Dibattito Internazionale sulla corruzione e le mafie. L’iniziativa alla quale anch’io ho preso parte si proponeva di creare un movimento a livello internazionale, di un risveglio delle coscienze per fare fronte comune contro le diverse mafie. Nel documento conclusivo si auspicava la necessità di creare una Consulta con il compito di approfondire una risposta globale – attraverso le Conferenze episcopali e le Chiese locali – sulla scomunica ai mafiosi e alle organizzazioni criminali affini.

Le difficoltà ad andare avanti nella proposta sono dovute al fatto che il nuovo Dicastero, che accorpa quattro organismi vaticani preesistenti, ha avuto dei ritardi nel coordinamento di questi organismi e nella definizione del proprio organigramma. Si trattava poi di includere altre istituzioni della Santa Sede come la Congregazione per la Dottrina della Fede e il Pontificio Consiglio per i Testi legislativi. È inoltre da tener presente il pregiudizio che il problema delle mafie riguarderebbe solo alcune regioni del Meridione d’Italia, dimenticando che le varie mafie sono presenti non solo in tutta l’Italia, ma anche in diversi paesi del mondo.

Sembra legittimo chiedersi se in questa condanna pubblica fatta da Papa Francesco ci sia la volontà di estendere a livello di legge universale la pena di scomunica per il delitto di appartenenza mafiosa andando oltre i confini di alcune regioni dato che si tratta di una piaga globale e non solo locale.

Si va finalmente a delineare una definizione di “peccato di mafia”?

Il fatto che alcune Conferenze Episcopali regionali abbiano comminato la scomunica per i mafiosi significa che l’appartenenza alla mafia è considerata non solo un peccato ma anche un delitto dal punto di vista del Diritto canonico. Mentre il peccato comporta una imputabilità morale, il delitto comporta anche una imputabilità giuridica che prevede anche una pena.

La pena di scomunica necessita di un testo legale penale emanato in forma scritta e promulgato dalla competente autorità munita di potestà legislativa, ove è determinata la fattispecie delittuosa, il tipo di pena, l’autorità che la può irrogare e rimettere. Si tratta di estendere a livello universale quello che alcuni episcopati hanno stabilito a livello regionale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle Diocesi della Sicilia, della Calabria o della Campania venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.

Quanto tempo ci vorrà prima che la scomunica sia effettiva?

Ci vorrà del tempo per colmare questo vuoto normativo a livello universale, che si può comprendere con la difficoltà nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali abbia potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società, sia a livello nazionale che internazionale.

Tra le varie espressioni criminali geograficamente distanti si tratta di riconoscere una struttura culturale e identitaria condivisa per la quale è necessaria una chiara presa di posizione di tutta la Chiesa cattolica. Il compito del Gruppo si lavoro di cui faccio parte è di carattere preliminare. Si tratta poi di coinvolgere altri dicasteri vaticani e alla fine la Congregazione della Fede che, sentito il Santo Padre, può decretare una pena di scomunica a livello universale. Bisogna ricordare che le leggi di carattere penale sono necessarie ma non sufficienti.

Diventa quindi prioritario muoversi con coraggio per formare le coscienze per far comprendere la gravità di tali fenomeni ed educare alla giustizia, alla socialità e a una cultura di pace in vista del bene comune. Come scritto con i Vescovi di Sicilia nella Lettera pubblicata il 9 maggio 2018 a venticinque anni dall’appello di San Giovanni Poalo II ad Agrigento: “Dobbiamo accettare la sfida – precipuamente formativa ed educativa – di risvegliare nelle persone il senso dell’appartenenza ecclesiale, se necessario mettendo in chiaro che c’è una scomunica de facto che entra ‘in vigore’ anche a prescindere dalla scomunica de jure: consiste nell’autoesclusione dalla comunione con il Signore e con i suoi discepoli, cui si ‘condanna’ chi preferisce incancrenirsi nel peccato e incamminarsi lungo i sentieri senza ritorno della corruzione. Se non si aiutano le persone a recuperare il senso dell’appartenenza alla Chiesa, l’esclusione giuridica dalla comunione ecclesiale, comminata con una sanzione canonica, rischierà di essere non compresa – prima ancora che temuta o contestata – da parte delle persone affiliate alla mafia. Alle quali, invece, occorre tornare a rivolgere insistentemente – «in ogni occasione opportuna e non opportuna» (2Tm 4,2) – l’appello alla conversione lanciato da San Giovanni Paolo II”.

Dopo le parole di Giovanni Paolo II ad Agrigento la mafia rispose con due attentati esplosivi (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro): quando la scomunica sarà effettiva pensa che potrebbe succedere nuovamente qualcosa del genere?

Ritengo che oggi le mafie capiscono che certi attentati violenti sarebbero controproducenti. Già dopo la presa di posizione di Papa Francesco ma anche prima nei confronti del cardinale Salvatore Pappalardo ci sono stati dei segnali come quello di disertare le celebrazioni eucaristiche nelle carceri o quello di distinguere i preti “accomodanti” da quelli “intransigenti” da colpire con l’isolamento o con calunnie e in casi estremi con l’uccisione come è avvenuto per don Puglisi, don Diana e il giudice Livatino.

Se poi mafiosi, in mancanza di una vera conversione che esige la giustizia riparativa, rinunziassero a partecipare ad alcune manifestazioni religiose esterne ne guadagnerebbe l’autenticità della pietà popolare, che essi hanno cercato di strumentalizzare non per una genuina devozione ma per avere un consenso sociale.

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